E l’idea di questo viaggio

venne dal mio signore vostro figlio;

se no, probabilmente sia Parigi,

che quella medicina per il re

sarebbero rimasti ben lontani

dai miei pensieri.

 

CONTESSA -

E tu ritieni, Elena,

che andando tu a offrirgli il tuo rimedio,

 

il re accetterebbe di provarlo?

Su una cosa è d’accordo coi suoi medici:

ch’essi non possono fargli più niente,

cosa di cui anch’essi son convinti.

Come potranno dunque prestar credito

a una povera vergine profana

di medicina, quando le lor scuole,

sviscerato l’intero lor sapere,

abbandonano il caso al suo destino?

 

ELENA -

Ebbene c’è qualcosa in questo farmaco

che trascende perfino la perizia

del padre mio, che pure, lo sapete,

era al vertice della professione:

un qualcosa per cui la sua ricetta

per essermi venuta come lascito

a dispiegar l’effetto suo benefico,

è, come potrei dire?, resa sacra

dall’influsso degli astri più benigni;

e s’io potessi, col consenso vostro,

provarla sulla malattia del re,

sarei disposta, a rischio della vita,

a impegnarmi a ridargli la salute

entro un determinato giorno e ora.

 

CONTESSA -

Ne sei proprio convinta?

 

ELENA -

Sì, signora,

e in assoluta e completa coscienza.

 

CONTESSA -

Se davvero è così come tu dici,

Elena, allora non potrà mancarti

il mio affetto insieme al mio consenso,

e i mezzi e l’assistenza necessari.

Va’, porta i miei saluti più affettuosi

ai miei congiunti a corte. Io resto qui

a pregar Dio per questa tua impresa.

Parti domani, e sii certa di questo:

avrai da me ogni aiuto possibile.

 

 

(Escono)

 

ATTO SECONDO

 

SCENA I - Parigi, il palazzo reale.

 

Fanfara di trombe.([23]) Entra il RE con diversi giovani NOBILI in partenza per la guerra in Toscana; da un’altra parte entrano BERTRAMO e PAROLLES con un altro gruppo; i due gruppi si dispongono uno di fronte all’altro intorno al re.

 

RE -

(Al primo gruppo)

Addio, dunque, miei giovani signori.

Cercate di non far che si disperdano

queste vostre pugnaci aspirazioni.

(Al secondo gruppo)

Ed anche a voi, signori, il mio saluto.

(A tutti)

Spartitevi tra voi il mio consiglio,

dall’una all’altra parte;

se ciascuna se ne farà tesoro,

questo mio dono s’allungherà tanto

che ciascuno ne avrà quanto gli basta.

 

PRIMO NOBILE -

Sire, è vivissima nostra speranza,

dopo aver fatto buon uso dell’armi,

di trovare, al ritorno, vostra altezza

ristabilita nella sua salute.

 

RE -

No, questo ormai non sarà più possibile;

pure in cuore ancor non mi confesso

l’infermità che m’assedia la vita.

Buona fortuna, giovani signori;

ch’io viva o muoia, siate degni figli

della migliore nobiltà di Francia.

Fate che l’alta nobiltà d’Italia

- esclusa quella sol rimasta erede

dello sfacelo dell’ultimo impero -([24])

sia testimone che non siete andati

a corteggiar l’onore, ma a sposarlo.

Anche quando il più bravo dei segugi

rinunci ad inseguirla, siate voi

a scovare la preda ed acciuffarla,

e ne salga alto l’eco della fama.

 

PRIMO NOBILE -

Possa, maestà, obbedire la salute

ai desideri vostri.

 

RE -

Le ragazze d’Italia! State in guardia:

è proverbiale che al nostro francese

manchino le parole

per dir di no alle loro richieste.

State attenti, perciò,

a non far che cadiate prigionieri

prima ancora di scendere sul campo.

 

PRIMO e SECONDO NOBILE -

Terremo in cuore i vostri ammonimenti.

 

RE -

Addio.

(Ai suoi del seguito)

Accompagnatemi di là.

 

 

(Si ritira, sorretto, con il seguito)

 

PRIMO NOBILE -

(A Bertramo)

È un peccato, che voi restiate qui,

amabile signore.

 

PAROLLES -

Non è per colpa sua, messer Snobetti.([25])

 

SECONDO NOBILE -

Che bella cosa, però, queste guerre!

 

PAROLLES -

Magnifica! Ne ho viste io, di guerre!

 

BERTRAMO -

E io costretto a rimanere a casa,

con la solita solfa: “troppo giovane”,

“l’anno venturo…”, “ancora troppo presto…”

 

PAROLLES -

Però, ragazzo, se hai quell’idea,

coraggio e sguscia via. Vai anche tu.

 

BERTRAMO -

Eh, purtroppo m’è forza restar qui

a tirar la carrozza d’una femmina

come un cavallo alla testa d’un tiro,

ed a sentirmi le scarpe scricchiolare

sopra un piancito lucidato a cera,

fin quando poi non ci sarà più onore

da potersi acquistare con la spada,

e sarà sol portata al fianco

per ornamento alle feste da ballo.

Perdio, io me la svignerò di furto!

 

PRIMO NOBILE -

C’è onore anche nel furto.

 

PAROLLES -

Sì, fallo, conte.

 

PRIMO NOBILE -

Ed io vi sarò complice.

Per ora posso dirvi solo addio.

 

BERTRAMO -

Son diventato una parte di voi,

ed ora il separarmi è una tortura.

 

PRIMO NOBILE -

(A Parolles)

Salute, capitano!

 

SECONDO NOBILE -

Caro monsieur Parolles!

 

PAROLLES -

Nobili eroi,

la mia spada è parente delle vostre:

lustre, brillanti, insomma, buona tempra.

Nel reggimento dei duchi di Spina([26])

incontrerete un certo capitano,

Spurio il nome, con una cicatrice,

un distintivo di combattimento,

sulla guancia sinistra.

È stata opera di questa spada.

Ditegli che son vivo, e state attenti

a tutto quello che dirà di me.

 

PRIMO NOBILE -

Sarà fatto senz’altro, capitano.

 

PAROLLES -

Che Marte vi largisca le sue grazie

come sue nuove reclute.

(A Bertramo)

Tu che vuoi fare?

 

BERTRAMO -

Zitto, arriva il re.

 

 

Rientra il RE dal fondo

 

PAROLLES -

Mostrati di maniere più espansive

con quei giovani nobili signori;

ti sei tenuto a un troppo freddo addio.

Devi esser più cordiale con costoro,

quelli son gente al passo con i tempi;([27])

sanno sfoggiare il giusto portamento,

sanno mangiare, discorrere, muoversi

 

sotto l’influsso dell’astro più in voga,

e con loro bisogna pur ballare,

foss’anche il diavolo a guidar la danza.

Va’ loro dietro e da’ loro un addio

con più calore.

 

BERTRAMO -

È quello che farò.

 

PAROLLES -

Sono degne persone,

sapran mostrarsi buoni spadaccini.

 

 

(Escono Bertramo e Parolles)

 

 

Entra LAFEU e s’inginocchia al re

 

LAFEU -

Chiedo il vostro perdono, maestà,

per me e per la notizia che vi porto.

 

RE -

L’avrai se non mi stai lì inginocchiato.

 

LAFEU -

(Rialzandosi subito)

Eccomi allora in piedi e perdonato.

Avrei tanto voluto, mio signore,

che foste stato voi a inginocchiarvi

e a chiedere perdono in vece mia

ed a balzare in piedi al mio comando.

 

RE -

L’avrei voluto anch’io, e perché no,

per spaccarti magari quella zucca

e poi poterti chiedere perdono.

 

LAFEU -

Proprio spaccata in due!… Povero me!

Mio signore, la mia notizia è questa:

volete che qualcuno vi guarisca

del vostro male?

 

RE -

No.

 

LAFEU -

Oh, oh! Non vuole dunque mangiar l’uva

la mia volpe reale?

Eh, ma li mangerebbe certamente

la mia volpe reale i miei bei grappoli,

se gli riuscisse di arrivare a coglierli.([28])

Insomma, ho conosciuto un certo medico([29])

 

ch’è capace di dar vita in un sasso,

d’animare una roccia, e far che voi

vi mettiate a ballare una canaria([30])

con tutto il fuoco e la mozione giusta;

che col semplice tocco delle dita

può far resuscitare Re Pipino;

che possiede, vi dico, un tal potere

da porre in mano al grande Carlomagno

tanto di calamo, per fargli scrivere

versi d’amore dedicati a lei.

 

RE -

Lei chi?

 

LAFEU -

Diamine, sire, il dottor Lei!

È testé giunta a corte, mio signore,

se voleste degnarvi di riceverla.

Ora, sulla mia fede ed il mio onore,

se m’è lecito esprimer seriamente

quello che penso in tal scherzosa forma,

ho parlato, vi dico, con persona

che pel suo sesso, per l’età sua giovane,

per la saggezza delle sue teorie

e la costanza con cui le sostiene

m’ha stupito ben più ch’io possa dire

d’incolparne la mia credulità.

Volete compiacervi di riceverla,

ché questo ella vi chiede, e d’ascoltarla?

Dopo, ridete pure alla mie spalle.

 

RE -

Ebbene, buon Lafeu, falla passare

questa tua decantata meraviglia,

sì ch’io possa spartirla insieme a te,

o almeno fartene disincantare,

meravigliandomi poi della tua.

 

LAFEU -

Va bene. E ne sarete soddisfatto

vi dico, prima che tramonti il giorno.

 

 

(Esce)

 

RE -

Il solito suo prologo a qualcosa

che si dimostra poi non esser niente.

 

 

Rientra LAFEU con ELENA

 

LAFEU -

(A Elena, che indugia davanti al re)

Venite avanti, prego.

 

RE -

Eh, che rapidità, questo Lafeu!

 

LAFEU -

(A Elena)

Venite avanti… Questi è sua maestà.

Ditegli pure quel che avete a dirgli.

All’apparenza vi si prenderebbe

per un cospiratore;

ma da cospiratori come voi

il re non avrà proprio da temere.

Io mi faccio ora lo zio di Cressida,([31])

e vi lascio qui soli. Arrivederci.

 

 

(Esce)

 

RE -

Dunque, bellezza, par che avete a dirmi

cosa che mi riguarda?

 

ELENA -

Sì, signore.

Mio padre era Gerardo di Narbona,

ben noto qui nella sua professione.

 

RE -

Lo conoscevo bene.

 

ELENA -

Tanto meglio:

ciò mi risparmia di farne le lodi:

conoscerlo bastava.

Sul suo letto di morte il padre mio

m’affidò molte delle sue ricette

una in particolare, ch’era il frutto

il più pregiato delle sue ricerche,

 

e delle sue esperienze di molti anni,

m’ordinò di tenerla custodita

come la terza delle mie pupille,

anzi meglio e di più delle mie due.

Io così ho fatto. Avendo adesso udito

che vostra maestà è proprio afflitta

da quel male per cui è più efficace

quell’onorato dono di mio padre,

son venuta ad offrirlo a vostra altezza

con tutta la mia umile assistenza.

 

RE -

Ti ringrazio, fanciulla;

ma non possiamo aver troppa fiducia

 

ormai d’alcuna cura al nostro male,

quando i nostri dottori più famosi

han tutti desistito,

ed il collegio medico riunito

ha pur concluso che la scienza medica

è incapace, per quanti sforzi faccia,

di riscattare la natura umana

da processi che sono irreversibili.

Io devo aggiungere che non è lecito

a noi macchiare il nostro raziocinio

o avvilire le nostre aspettative

fino a prostituire il nostro male

inguaribile a empirici rimedi,

né dissociar la nostra alta persona

dalla reputazione ch’essa gode,

accettando rimedi irrazionali,

quando consideriamo irrazionale

sperare ormai in qualsiasi rimedio.

 

ELENA -

Quand’è così, signore,

sarà giusto compenso alle mie pene

il dovere compiuto. Non insisto

ad imporvi per forza i miei servigi;

vi chiedo solo, umilissimamente,

di poter riportare con me indietro

soltanto un vostro modesto pensiero.

 

RE -

Meno di questo non potrei concederti

senza passare da irriconoscente.

Ti sei offerta di recarmi aiuto,

ed io ti rendo quei ringraziamenti

che può offrire chi è prossimo a morire

a chi ha desiderato ch’ei vivesse.

Ma del mio male, che conosco a fondo,

tu non conosci nulla;

io so qual è il mio stato di pericolo,

tu non conosci l’arte.

 

ELENA -

Quand’è così, non vi può recar danno

ch’io tenti tutto quel che posso fare,

dal momento che avete ormai puntato

tutta la posta contro ogni rimedio.

Colui che fa le opere più grandi

molte volte si serve, ad eseguirle,

del più piccolo e debole ministro.

Le Divine Scritture ci tramandano

di bambini dotati di giudizio,

quando giudici si son dimostrati

bambini; immensi fiumi spesso sgorgano

 

da minuscole polle;

grandi mari si sono prosciugati

quando i grandi negavano i miracoli.

Spesso le aspettative son deluse

proprio laddove meglio esse promettono;

e s’avverano dove la speranza

è morta e cede alla disperazione.

 

RE -

Non posso darti ascolto.

Addio gentil fanciulla. Le tue cure

non fruite, te le dovrai pagare

di tasca tua; le offerte non fruite

non possono ricevere altro compenso

che un “grazie” a voce.

 

ELENA -

Un alito di voce

può respinger così un beneficio

ispirato da cielo. Non così

è con Colui che conosce ogni cosa.

Noi formiamo le nostre convinzioni

sull’apparenza; e, troppo presuntuosi,

consideriamo l’aiuto del cielo

alla stregua dei nostri fatti umani.

Caro signore, date il vostro assenso

a questo tentativo: sarà il cielo

non io a compiere l’esperimento.

Non son tale impostore

da proclamare d’aver fatto centro

prima ancora d’aver preso la mira;

ma so di credere, e credo per certo,

che la mia arte ha il suo potere,

e il vostro male non è senza cura.

 

RE -

Sei così fiduciosa?

E in quanto tempo speri di guarirmi?

 

ELENA -

Se la Grazia celeste mi fa grazia,

sarà prima che i cavalli del sole

 

abbian fatto percorrere due volte

al fiammeggiante lor torciere-auriga([32])

il diurno suo giro intorno al mondo,

e prima che due volte Espero rorido([33])

abbia stemprato l’assonnata lampada

nell’umido caliginoso occaso;

prima che la clessidra del nocchiero

abbia segnato ventiquattro volte

lo scorrere furtivo dei minuti,

 

ciò che di voi è infermo

lascerà l’altre vostre membra sane,

la salute vivrà libera in voi

e il vostro male si dileguerà.

 

RE -

Quale posta sei tu pronta a rischiare

su questa tua fiduciosa certezza?

 

ELENA -

La condanna di femmina impudente,

di temeraria sfacciata sgualdrina,

il generale pubblico ludibrio,

il mio nome di vergine

fatto argomento di oscene ballate

e marchiato d’infamia; o peggio ancora

che la mia stessa vita si concluda

tra le più vili e infamanti torture.

 

RE -

Mi pare di sentir parlare in te

la voce d’uno spirito divino

in un esile organo,

onde ciò che al buon senso pare assurdo,

acquista senso su un diverso piano.

La tua vita è preziosa,

poiché in te è raccolto ed esaltato

tutto quello può chiamarsi degno

del nome vita: gioventù, bellezza,

discernimento, dignità, coraggio…

tutto ciò che felicità e freschezza

di gioventù possono dir felice.

Per metterla a tal rischio,

tu devi possedere la certezza

d’una perizia quasi illimitata,

o una mostruosa temerarietà.

Proverò dunque, dolce guaritrice,

il tuo farmaco; ma, se morirò,

ricordati: sarà per te la morte.

 

ELENA -

Se andrò al di là del termine indicato,

o mancherò altrimenti a quel che ho detto,

mi sia pur data morte,

senza pietà: l’avrò ben meritato:

sarà questa la giusta mia mercede,

se non sarò riuscita a guarirvi.

Ma se riesco, che mi promettete?

 

RE -

Chiedilo tu.

 

ELENA -

Ma voi lo manterrete?

 

RE -

Sì, su questo mio scettro

e sulle mie speranze di salvezza.

 

ELENA -

Allora, con la tua mano regale,

mi darai qual marito in tuo potere

io ti richiederò. Rimanga escluso

ch’io sia tanto arrogante da pretendere

di sceglierlo fra la regal progenie

di Francia, con l’intento di innestare

il mio modesto ed umile casato

ad un qualsiasi ramo o simulacro

del tuo ceppo; ma uno, un tuo vassallo,

ch’io sappia d’esser libera di chiedere,

come tu di concedere.

 

RE -

D’accordo,

eccoti la mia mano.

Attuate che avrai le tue promesse,

il tuo volere mi troverà pronto

a soddisfarlo. Scegli tu il momento,

ché ormai son ben deciso

ad affidarmi a te e alle tue cure.

Di te vorrei però saper di più,

anche se ciò non gioverebbe molto

ad accrescere in te la mia fiducia:

da dove vieni, con chi sei venuta…

Ma no, rimani pur la benvenuta

senza interrogatorio, e benedetta

senza sospetto.

(Ai servi)

Ehi, voi, sorreggetemi.

(A Elena)

Se il tuo procedere nei miei riguardi

sarà all’altezza della tua parola,

i miei atti saranno ad esso pari.

 

 

(Trombe. Escono)

 

 

 

SCENA II - Rossiglione il palazzo del conte.

 

Entrano la CONTESSA e IL LAVA

 

CONTESSA -

Orsù, voglio vedere, signor mio,

fino a che punto sei bene istruito.

 

LAVA -

Ben nutrito potrete ben vedermi,

signora; bene istruito, un po’ meno.

Del resto tutto quel che devo fare

se non si tratta che d’andare a corte…

 

CONTESSA -

E già, “a corte!” Perché, c’è altro luogo

che consideri più altolocato,

per parlarne con tanta degnazione?

“Se non si tratta che d’andare a corte…”

 

LAVA -

Bah, signora: se uno ha avuto in dono

dal Padreterno un po’ di gentilezza,

unita a un poco di buone maniere,

gli sarà facile spacciarle a corte;

ma chi non sa come fare un inchino,

scoprirsi il capo, baciarsi le dita

e spiccicare due parole insieme,

vuol dire che non ha ginocchia, mani,

labbra o cappello, e, a dirla francamente,

a corte se la caverebbe male.

Ma io, per me, ho una risposta a tutto.

 

CONTESSA -

Vergine santa, chi sa che risposta

sarà, di quanto abbondante in larghezza,

per adattarsi a tutte le domande!

 

LAVA -

È come il seggiolone del barbiere

che va bene per tutti i deretani:

il pizzuto, il robusto, lo spianato,

qualsiasi deretano.

 

CONTESSA -

Sarebbe a dire che la tua risposta

s’adatta bene a qualsiasi domanda?

 

LAVA -

Sì, come dieci grosse([34])

alla mano di un basso mozzorecchi,

o la corona francese([35]) alla zucca

d’una sgualdrinelluccia in taffettà;

o l’anello di giunco di Pierina

al dito di Pierino;

o come la frittella al Carnevale;

o come la moresca al primo maggio;([36])

il chiodo al buco, le corna al cornuto,

la bisbetica all’uomo attaccabrighe,

come le labbra d’una monachina

alla bocca d’un frate… che dir più?

come la carne insaccata alla pelle.

 

CONTESSA -

Insomma, dico, avresti una risposta

per chiunque ti faccia una domanda?

 

LAVA -

Dal duca in giù, fino all’ultimo sbirro.

 

CONTESSA -

Dev’essere davvero una risposta

di dimensioni quanto mai mostruose,

per adattarsi a tutte le domande.

 

LAVA -

Macché, una bagattella, v’assicuro,

se fosse un istruito a definirla.

Eccola a voi, con annessi e connessi:

chiedetemi se sono un cortigiano;

non vi farà alcun danno ad impararla.

 

CONTESSA -

Vediamo: tanto per tornare giovane

- magari lo potessimo! - da sciocca

ti faccio allora io quella domanda

nella speranza che la tua risposta

mi comunichi un grano di saggezza:

“Signore, prego, siete un cortigiano?”

 

LAVA -

(Imitando i modi leziosi di un cortigiano)

“Oh, là là, mio signore!”… Questo è niente,

un primo assaggio… Ancora, ancora, cento…

 

CONTESSA -

“Signore, sono un vostro umile amico

che vi vuol bene…”

 

LAVA -

(c.s.)

“Oh, là là, mio signore!”…

Su, su, incalzatemi, senza risparmio!

 

CONTESSA -

“Credo, signore, che non mangerete

di questo cibo troppo casalingo”.

 

LAVA -

“Oh, là, là”… Sotto, sotto, sempre più,

mettetemi alle strette, e sentirete.

 

CONTESSA -

“V’hanno frustato bene ultimamente,

credo, signore”.

 

LAVA -

“Oh, là là, signore!”…

Su, su non risparmiatemi! Insistete!

 

CONTESSA -

Sicché a uno che ti fustigasse

risponderesti: “Oh, là, là, signore!”

con l’aggiunta di : “Su, non risparmiatemi”?

Quel “là là” segue bene le frustate,

risponderesti bene alle frustate,

se volessi tenerti a quelle frasi.

 

LAVA -

Questo “Oh, là là, signore!”

non m’è andato mai male in vita mia

come ora con voi;

certe cose, bisogna riconoscerlo,

possono funzionare anche per molto,

ma non per sempre ed in ogni occasione.

 

CONTESSA -

Ma io sto recitando con il tempo

la parte della nobile anfitriona,

passandolo così svagatamente

con un buffone.

 

LAVA -

“Oh, là là, signora!”…

Ecco, stavolta ha funzionato bene!

 

CONTESSA -

Basta, torniamo a quel che devi fare.

Rècati a corte([37]) e porta questo ad Elena,

(Gli consegna una lettera chiusa)

e di’ che ti dia subito risposta.

Salutami mio figlio e i miei parenti.

Non mi pare poi molto.

 

LAVA -

Non è molto che cosa: il salutarli?

 

CONTESSA -

No, tutto quanto quel che devi fare.

Hai capito il concetto?

 

LAVA -

Pienamente.

Sono già là, prima delle mie gambe.

 

CONTESSA -

E ritorna con pari speditezza.

 

 

(Escono da parti opposte)

 

 

 

SCENA III - Parigi, il palazzo reale.

 

Entrano BERTRAMO, LAFEU e PAROLLES;

questi sfoggia intorno al collo sciarpe di colori diversi

 

LAFEU -

Dicono che i miracoli

son cose che avvenivano in passato,

ora che abbiamo i nostri sapientoni

a renderci correnti e quotidiane

cose che un tempo gli uomini tenevano

per soprannaturali ed inspiegabili.

Sicché oggidì noi ci facciamo scherno

dei terrori dei nostri padri antichi,

rifugiandoci in una conoscenza

che tuttavia è soltanto apparente,

quando sarebbe giusto sottostare

comunque alla paura dell’ignoto.

 

PAROLLES -

Eh, sì, in coscienza, questa guarigione

è la più straordinaria meraviglia

di cui si sia parlato tra la gente

nel mondo da gran tempo a questa parte.

 

BERTAMO -

Infatti, sì.

 

LAFEU -

Dopo che tutti i medici

l’avevano già dato per spacciato…

 

PAROLLES -

Già, i vari Galeno e Paracelso

di casa nostra…

 

LAFEU -

… e tutti i più sapienti

e addottorati…

 

PAROLLES -

Eh, no? Lo dico anch’io.

 

LAFEU -

… che lo consideravano incurabile…

 

PAROLLES -

Già, questo è il punto.

 

LAFEU -

… irrimediabilmente.

 

PAROLLES -

… come se ormai non gli restasse più…

 

LAFEU -

La vita è incerta e sol la morte è certa.

 

PAROLLES -

Eh, me l’avete tolto dalla bocca.

 

LAFEU -

Posso affermare in tutta verità

che mai si vide al mondo cosa simile.

 

PAROLLES -

Appunto; ed a volerne la conferma,

si può leggerla in quel… come si chiama…

 

LAFEU -

(Citando a memoria)

Dimostrazione di un divino effetto

“su soggetto terrestre”.

 

PAROLLES -

Per l’appunto:

l’avevo sulla punta della lingua.

 

LAFEU -

Eccolo là, più vispo di un delfino.

In quanto a me, parlando con rispetto…

 

PAROLLES -

È strano, molto strano, questo è il fatto,

detto in parole povere;

e sarebbe perverso non vederci…

 

LAFEU -

… la mano stessa del cielo…

 

PAROLLES -

Sì, giusto.

 

LAFEU -

… che s’è manifestata nel più debole…

 

PAROLLES -

… e nel più umile dei suoi ministri

con tal potere, con tal trascendenza

da indurci a ripensare d’impiegarla

oltre la guarigione d’un sovrano,

sì da poter riscuotere, io dico…

 

LAFEU -

… un riconoscimento universale.

 

 

Entra il RE con ELENA e seguito

 

PAROLLES -

Giusto, così dicevo. Ma ecco il re.

 

LAFEU -

Lustig”,([38]) come direbbe un olandese.

Finché avrò denti in bocca, giuraddio,

voglio amare le donne alla follia.

Guardalo là, sarebbe ora capace

di ballare con lei una corrente!([39])

 

PAROLLES -

Mort du vinaigre!”([40])… Quella non è Elena?

 

LAFEU -

Perdio, direi di sì.

 

RE -

(A uno del seguito)

Va’ a dire a tutti i nobili di corte

di radunarsi qui, davanti a me.

 

 

(Esce il servo)

 

 

(A Elena)

Siedi, mia salvatrice, accanto a me,

vicino al tuo paziente risanato,

e da questa mia mano

i cui perduti sensi hai richiamato

ricevi un’altra volta ufficialmente

la conferma del dono a te promesso.

Devi soltanto pronunciare il nome.

 

 

(Entrano alcuni giovani NOBILI)

 

 

Bella fanciulla, guàrdati ora intorno:

questa accolta di giovani signori

pende dalla mia bocca

di sovrano e paterno lor tutore

per prender moglie. Sono tutti scapoli.

Scegli liberamente tra di loro.

Da me tu hai la facoltà di scegliere,

non essi quella di dirti di no.

 

ELENA -

A ciascuno di voi possa toccare,

quando nel vostro cuore spiri amore,

sposa bella e virtuosa. Tranne ad uno.

 

LAFEU -

(A parte)

Darei il mio baio e tutti i finimenti

per avere la dentatura sana

e la barba di questi giovanotti

così poco spinosa.

 

RE -

(Ad Elena)

Guardali bene. Non ce n’è nessuno

tra loro che non abbia un padre nobile.

 

ELENA -

Gentiluomini, il cielo, per mio tramite

ha ridonato la salute al re.

 

PRIMO NOBILE -

Ne siamo consapevoli,

e ne rendiamo grazie a Dio e a voi.

 

ELENA -

Io non sono che una fanciulla vergine,

e in questo sta tutta la mia ricchezza:

nel dichiararmi una fanciulla vergine.

Piaccia a vostra maestà, io ho finito.

Il rossore che avvampa le mie guance

sento che mi sussurra: “Sono qui,

perché tu sei di fronte ad una scelta,

ma se sarai respinta, al posto mio

scenda per sempre sopra le tue guance

il bianco della morte”.

 

RE -

Fa’ intanto la tua scelta. Poi vedremo.

Chi respinge il tuo amore

respinge insieme ad esso il mio favore.

 

ELENA -

Diana, ecco, io fuggo dal tuo altare,([41])

e volgo i miei sospiri

all’Amore, imperiale, eccelso iddio.

(Al Primo Nobile)

Signore, siete pronto ad ascoltare

la mia richiesta?

 

PRIMO NOBILE -

Ed anche ad esaudirla.

 

ELENA -

Grazie, signore. Il seguito è silenzio.([42])

 

LAFEU -

(A parte)

Perdio, mi giocherei la vita ai dadi,

a costo di buttare giù due assi,

per potermi trovare in mezzo a loro!([43])

 

ELENA -

(Al Secondo Nobile)

La fierezza che v’arde, mio signore,

in quei begli occhi prima ancor ch’io parli,

è una risposta troppo minacciosa.

Amore faccia le vostre fortune

venti volte al disopra di colei

che qui ve l’augura e del suo umile

modesto amore.

 

SECONDO NOBILE -

Non chiedo di meglio.

 

ELENA -

Vogliate dunque accettare i miei voti

e il cielo li esaudisca. Vi saluto.

 

LAFEU -

(c.s.)

Possibile che tutti la ricusino?

Fossero figli miei li frusterei,

o li manderei tutti dal Gran Turco,

per farne eunuchi per il suo serraglio.

 

ELENA -

(Al Terzo Nobile)

Non abbiate timore, cavaliere,

ch’io voglia prendere la vostra mano.

V’ho riguardo. Non vi farò mai torto.

Il cielo benedica i vostri voti,

e possiate trovar nel vostro letto

più vaga sorte, se vi sposerete.([44])

 

LAFEU -

(c.s.)

Questi ragazzi son fatti di ghiaccio:

non la vuole nessuno. Son bastardi

di padre inglese, costoro, è sicuro.

I Francesi non fan figli così.

 

ELENA -

(Al Quarto Nobile)

Voi siete troppo giovane,

troppo gioviale e troppo altolocato

per regalarvi un figlio dal mio sangue.

 

QUARTO NOBILE -

Non lo credo, bellezza.

 

LAFEU -

(A parte, osservando Bertramo)

Resta un chicco dal grappolo,

e tuo padre, son certo, amava il vino;

e tu non sei un asino, lo so,

com’io non sono più uno scolaretto

quattordicenne: ti conosco già.

 

ELENA -

(A Bertramo)

Non oso dir: “Vi prendo”,

ma che dono me stessa e i miei servigi

per tutta la mia vita al tuo potere

e alla tua guida. Sire, questo è l’uomo.

 

RE -

Bertramo, prendila, dunque, è tua moglie.

 

BERTRAMO -

Mia moglie, sire! La vostra maestà

vorrà concedermi in questa faccenda

ch’io mi faccia aiutare dai miei occhi.

 

RE -

Non sai quello che ha fatto ella per me?

 

BERTRAMO -

Sì, signore, lo so;

ma non spero di poter mai sapere

perché la dovrei prendere per moglie.

 

RE -

Sai che m’ha fatto alzare

dal mio letto di atroce sofferenza.

 

BERTRAMO -

E dovrebbe discenderne,

che l’aver fatto ella alzare voi

dovrebbe far calare in basso me?

Io la conosco bene: ella è cresciuta

in casa mia, a spese di mio padre.

Io, prenderla per moglie!

Sia causa il mio rifiuto di costei

piuttosto di perenne mia disgrazia

mio signore!

 

RE -

S’è solo la mancanza

in lei d’un titolo che tu disdegni,

io posso facilmente rimediarvi.

È ben strano che il sangue di noi uomini,

per colore, per peso e per calore

in tutti identico, se mescolato

l’un con l’altro sarebbe indistinguibile,

e si debbano invece attribuire

ad esso tali e tante differenze.

S’ella assomma in se stessa ogni virtù

salvo quella che dici di sdegnare

(esser lei figlia d’un povero medico)

tu sdegni la virtù per un blasone.

Non farlo. Quando opere virtuose

procedono da origine modesta

la loro origine trae dignità

da chi le compie, non dai suoi antenati.

E dove in titoli gonfi e sfarzosi

 

non alberga virtù, l’onore è idropico.

Il bene è bene da sé, senza nome;

così il male; la qualità è stimata

per quel che è, non pel nome che porta.

Ella è giovane, giudiziosa, bella,

e questi doni ha tutti ereditati

direttamente da madre natura,

e son essi che generano onore.

È un onore da burla, per converso,

quello di chi si vanta d’esser figlio

dell’onore, e non è come suo padre.

Fiorisce onore quando dai nostri atti

ci viene, più che da quelli degli avi.

Onore è termine anche spregevole,

quando è buttato, mendace epitaffio,

su ogni pietra tombale, su ogni tomba;

e spesso muto laddove la polvere

e un maledetto oblio coprono ossa

veramente onorate. Che più dirti?

Se ti senti di amar questa creatura

per la fanciulla semplice che è,

io, per lei, sono pronto a fare il resto.

 

Ella e la sua virtù son la sua dote;

ricchezza e titolo li avrà da me.

 

BERTRAMO -

Non mi sento di amarla,

e non voglio forzar me stesso a farlo.

 

RE -

Ma fai torto a te stesso

se pretendessi di scegliere altrove.([45])

 

ELENA -

Io son felice di avervi guarito,

signore. Al resto non pensiamo più.

 

RE -

È in gioco il mio onore,

e per difenderlo sono deciso

ad usare la mia autorità.

Su, prendila per mano,

orgoglioso e protervo giovinotto,

indegno d’un tal dono prelibato,

che cerchi, con spregevoli pretesti,

di mettere alla gogna l’onor mio

e i meriti di lei; non pensi tu

che se mettiamo la nostra persona

sul suo più alto piatto, la bilancia

farebbe tracollare quello tuo

fino al soffitto? Sai ch’è in noi il potere

di piantare la pianta del tuo onore

sul terreno sul quale piace a noi

di farlo crescere. Vedi perciò

di saper contenere il tuo disprezzo.

Obbedisci alla nostra volontà

che s’adopra soltanto pel tuo bene.

Non dar retta all’orgoglio;

rendi alle tue fortune l’obbedienza

che il dovere di suddito t’impone

e che la nostra potestà reclama,

ch’io non abbia ad escluderti per sempre

dalle mie cure, e lasciarti in balìa

dell’incurante e vacillante gorgo

dell’ignoranza e della gioventù,

scatenando su te la mia vendetta

e il mio odio, nel nome della legge,

senza il minimo senso di pietà.

Parla. La tua risposta.

 

BERTRAMO -

Mio grazioso signore, perdonatemi;

assoggetto il mio interno impulso

al vostro modo di vedere, sire.

Consapevole del potere vostro

di procurare grandezza ed onore

a pro di chi e dovunque lo vogliate,

io scopro che colei che ancor poc’anzi

il mio nobile animo pensava

infima, è ora l’eccelsa del re;

così nobilitata, ella ai miei occhi

è lo stesso che fosse nata nobile.

 

RE -

E allora avanti, prendila per mano,

dille che è tua, e lei la mia promessa

di titoli di proprietà e di grado

farà pesare almeno quanto te,

se non di più.([46])

 

BERTRAMO -

Accetto la sua mano.

 

RE -

La buona sorte e il favore del re

sorridano benigni a questo patto

che sarà celebrato senza indugio,

con rito breve, senza cerimonie,

stasera stessa. Il ritual festino

potrà aver luogo più in là, a suo tempo,

in attesa di amici ora lontani.

(A Bertramo)

Se tu l’ami, il tuo amore per me è sacro;

se no, sei un eretico.

 

 

(Escono tutti meno LAFEU e PAROLLES)

 

LAFEU -

Una parola, monsieur… m’ascoltate?

 

PAROLLES -

V’ascolto, monsignore.

 

LAFEU -

Bene ha fatto il signore tuo padrone

a rimangiarsi tutto.

 

PAROLLES -

Rimangiarsi!…

Il mio signore, eh? Il mio padrone!

 

LAFEU -

Sì, il tuo padrone: che linguaggio parlo?

 

PAROLLES -

Un linguaggio assai scabro, che a comprenderlo

avrebbe conseguenze sanguinose.

Il mio padrone!

 

LAFEU -

Che volete dire?

Siete voi pari al conte Roussillion?

 

PAROLLES -

A quello e a tutti i conti,

io sono pari, a tutto ciò che è uomo.

 

LAFEU -

A tutto ciò che sia uomo del conte;

il padrone del conte è altra roba.

 

PAROLLES -

Eh, siete troppo vecchio, signor mio,

rassegnatevi, siete troppo vecchio.

 

LAFEU -

Sono un uomo, messere, e dico “un uomo”,

un titolo che a te manco l’età

potrà dare, campassi anche cent’anni!([47])

 

PAROLLES -

Mi trattengo dal far verso di voi

cosa che mi sarebbe troppo facile.

 

LAFEU -

Per quel paio di volte,

che ci siamo trovati insieme a tavola,([48])

t’ho creduto persona di buon senso;

facevi tollerabilmente vanto

dei tuoi viaggi: il che può anche andare.

Ma le troppe fusciacche e bandierine

di cui sei sempre tutto pavesato

m’han dissuaso dal considerarti

un vascello di troppo grossa stazza.

Adesso poi ti sei scoperto tutto

e se ti perdo, non mi metto a piangere;

perché sei uno che non sa far altro

che porre cervellotiche domande,

ed anche in questo vali poco assai.

 

PAROLLES -

Se non vi proteggesse il privilegio

della vecchiaia…

 

LAFEU -

Non scaldarti troppo,

se non vuoi affrettare la tua prova,

altrimenti… Che Dio abbia pietà

di te e delle galline come te!

È meglio che ci salutiamo: addio,

faccione da vetrina di taverna!([49])

Non ho bisogno d’aprir le tue ante,

ché ti vedo attraverso. Qua la mano.

 

PAROLLES -

Signore, voi mi fate villania

in sommo grado.

 

LAFEU -

E con tutto il mio cuore,

è sempre meno di quanto ne meriti.

 

PAROLLES -

Non ne merito punto.

 

LAFEU -

Ah, sì, in coscienza,

fino all’ultimo decimo di grammo,

e non te ne torrò nemmeno un briciolo.

 

PAROLLES -

Bene, vuol dire che starò più accorto.

 

LAFEU -

E deciditi a farlo senza indugio,

perché dovrai mandar giù qualche rospo.

Quando con una di quelle tue sciarpe

sarai legato e picchiato a dovere,

allora capirai che voglia dire

farsi bello con tutti quei legacci.

Voglio restar comunque in relazione

con te, voglio anzi conoscerti meglio

sì che quando ti troverai nei guai

io possa dire: “È uno che conosco”.

 

PAROLLES -

Voi mi trattate in modi insopportabili,

monsignore.

 

LAFEU -

Vorrei, per il tuo bene,

che fossero le pene dell’inferno,

ed io a propinartele in eterno;

ma sono ormai fuori combattimento;

per cui ti pianto in asso,

con la più premurosa speditezza

consentitami dalla mia età.

 

 

(Esce)

 

PAROLLES -

Va’ va’, mi rifarò verso tuo figlio

di questi insulti, vecchio bofonchioso

ed immondo signore!

Per ora mi conviene pazientare,

non è possibile mettere in ceppi

l’autorità. Ma gliele suonerò,

se mi capita l’occasione giusta,

foss’egli il doppio del doppio più nobile!

 

 

Rientra LAFEU

 

LAFEU -

Ci sono novità per te, messere.

Il tuo padrone, nonché tuo signore,

ha preso moglie.