Tutto è Bene Quel Che Finisce Bene

WILLIAM SHAKESPEARE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TUTTO è BENE QUEL CHE FINISCE BENe

 

C ommedia in 5 atti

 

 

 

 

 

 

 

 

Traduzione e note di Goffredo Raponi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Titolo originale: “ALL’S WELL THAT ENDS WELL”

NOTE PRELIMINARI

 

 

1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello dell’edizione curata dal prof. Peter Alexander (William Shakespeare, “The Complete Works”, Collins, London & Glasgow, 1951-1960, pp. XXXII-1370) con qualche variante suggerita da altri testi, in particolare la più recente edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Welles e G. Taylor per la Clarendon Press, New York, U.S.A., 1988-94, pp. XLIX -1274; quest’ultima contiene anche “I due nobili cugini” (“The Two Noble Kinsmen”), che manca nell’Alexander.

 

2) Il traduttore ha aggiunto di sua iniziativa didascalie e indicazioni sceniche (“stage instructions”) laddove sono sembrate più opportune per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente concepita ed intesa, il traduttore essendo convinto della irrappresentabilità del teatro di Shakespeare sulle moderne ribalte.

Si è lasciata comunque invariata, all’inizio e alla fine di ogni scena, come all’entrata ed uscita dei personaggi nel corso della scena, la rituale indicazione “Entra”/ “Entrano” (“Enter”) ed “Esce”/ “Escono” (“Exit”/“Exeunt”), avvertendo peraltro che non sempre essa indica movimenti di entrata/uscita del personaggi, potendosi dare che questi si trovino già in scena all’apertura della stessa, o vi restino alla chiusura.

 

3) Il metro è l’endecasillabo sciolto, alternato da settenari; altro metro si è usato per citazioni, canzoni, proverbi, cabalette e altro, quando, in accordo col testo, sia stato richiesto uno stacco di stile.

 

4) I nomi dei personaggi che vi si prestino sono resi nella forma italiana.

 

5) Il traduttore riconosce di essersi avvalso di traduzioni precedenti (in particolare della prima versione di Giulio Carcano, e di quella del Bandini, del Melchiori, del Lodovici, del Lombardo, del d’Agostino e diversi altri), dalle quali ha tratto in prestito oltre alla interpretazione di passi oscuri o controversi, intere frasi e costrutti; di tutto ha dato opportuno credito in nota.

PERSONAGGI

 

A Rossiglione

 

La vedova CONTESSA DI ROSSIGLIONE

BERTRAMO, conte di Rossiglione, suo figlio

ELENA, giovane gentildonna orfana di Gerardo di Narbona, sua pupilla

PAROLLES, compagno di Bertramo

RINALDO, maestro di casa della contessa

IL LAVA, buffone della contessa

UN PAGGIO

 

Alla corte di Francia a Parigi

 

IL RE DI FRANCIA

LAFEU, vecchio gentiluomo

DUE CORTIGIANI, due fratelli, gentiluomini francesi al seguito di Bertramo, poi CAPITANI

UN SOLDATO FRANCESE, in funzione di interprete

UN GENTILUOMO, falconiere reale

 

A Firenze

 

IL DUCA DI FIRENZE

LA VEDOVA CAPILETI

DIANA, sua figlia

MARIANA, amica della vedova Capileti

 

Gentiluomini, ufficiali, soldati e altri personaggi francesi e fiorentini

 

 

 

SCENA: a Rossiglione, a Parigi, a Firenze, a Marsiglia

ATTO PRIMO

 

SCENA I - Rossiglione, il palazzo del conte.

 

Entrano il giovane BERTRAMO, la CONTESSA sua madre, ELENA, LAFEU,

tutti vestiti a lutto

 

CONTESSA -

Lasciare ora andar via da me mio figlio

è come seppellire mio marito

una seconda volta.

 

BERTRAMO -

E per me, madre,

è piangere mio padre un’altra volta,

andando via: ma devo sottostare

a un ordine del re,

al quale sono tanto più soggetto

ora che sono sotto sua tutela.

 

LAFEU -

Signora, voi troverete nel re

un marito, ed un padre voi, signore.

Egli, che è sempre sì buono con tutti,

non potrà non aver proprio con voi

questa virtù: ché anzi, i vostri meriti

non che scemarla dove è sì abbondante,

riuscirebbero a destarla là

dov’essa fosse del tutto mancante.

 

CONTESSA -

Che speranze ci sono

per il suo male? Il re potrà guarire?

 

LAFEU -

Ahimè, signora, ha licenziato i medici,

dopo aver inseguito tanto tempo,

sotto le loro cure, la speranza,

senza ritrarne alfine altro vantaggio

che sentirla scemar di giorno in giorno.

 

CONTESSA -

(Indicando Elena)

Questa giovane donna aveva un padre

- ahimè, quanta tristezza in questo “aveva”! -

la cui perizia nella scienza medica

quasi era pari alla sua onestà;

e dico “quasi”, ché se fosse giunta

ad eguagliarla in tutto,

avrebbe reso la natura umana

non più mortale e lasciato la Morte

in ozio, per mancanza di lavoro.

Che fortuna sarebbe per il re,

s’ei fosse ancora vivo!

La sua vita avrebbe potuto essere

la morte della malattia del re.

 

LAFEU -

Che nome aveva, mia signora, l’uomo

di cui parlate?

 

CONTESSA -

Un nome assai famoso

nella sua professione, e a buon diritto:

Gerardo di Narbona.

 

LAFEU -

Ah, sì, signora, veramente bravo.

Ne parlava anche il re, ultimamente,

con alta ammirazione e gran rimpianto;

era di tal perizia nel suo ramo,

che di certo sarebbe ancora in vita

se fosse dato all’umano sapere

di far baluardo alla mortalità.

 

BERTRAMO -

Di che malanno soffre il re, signore?

 

LAFEU -

D’un fistola.

 

BERTRAMO -

Un male mai sentito.

 

LAFEU -

Così vorrei lo fosse per nessuno!

E questa nobile madamigella

è figlia di Gerardo di Narbona?

 

CONTESSA -

La sua unica figlia, mio signore,

e rimasta affidata alle mie cure.

Su di lei nutro tutte le speranze

promesse dalla sua educazione;

grazie alla quale rifulgono in lei

ancora più i suoi doni di natura;

ché laddove virtuose qualità

si sposano a una mente ineducata,

non si può che apprezzarle con rammarico,

e si rivelano bensì virtù

in chi le ha, ma anche traditrici.

In lei, per contro, sono sublimate,

perché sposate a una grande schiettezza:

s’ella infatti deriva da natura

i sentimenti nobili dell’animo,

deriva da se stessa la virtù.

 

LEFEU -

Vedo, contessa, che le vostre lodi

le strappano le lacrime.

 

CONTESSA -

È il miglior sale con cui una vergine

può condire le lodi che riceve.

Ogni volta che le ritorna al cuore

 

il ricordo del padre,

il dolore tiranno viene a suggere

vita dalle sue gote.

(A Elena che piange in silenzio)

Orvia, Elena, basta, ché altrimenti

si potrebbe pensar, da chi ti vede,

che palesi un dolore non sentito.

 

ELENA -

È vero, lo paleso, ma lo sento.

 

LAFEU -

Un contenuto compianto dei vivi

è un diritto dei morti;

ma un dolore eccessivo

è nemico del vivere.

 

CONTESSA -

Tant’è.

Se il vivere non è nemico al duolo,

e ne frena l’eccesso, il troppo duolo

divien nemico al vivere e l’uccide.

 

BERTRAMO -

(Inginocchiandosi alla madre)

Madre, vi chiedo, prima di partire

il vostro santo augurio.

 

LAFEU -

(A parte)

Come intendere questo desiderio?([1])

 

CONTESSA -

Bertramo, figlio mio, sii benedetto,

e possa tu, nei modi e nell’aspetto,

mostrarti degno figlio di tuo padre;

e possa in te la nobiltà del sangue

gareggiare con l’onestà di vita,

e la bontà spartirsi la corona

col tuo alto lignaggio.

Abbi amore per tutti, fede in pochi;

non far torto a nessuno.

Col nemico ti devi confrontare

piuttosto moralmente che di fatto;

conservati l’amico sotto chiave

con la chiave della tua stessa vita.

Lasciati biasimar pel tuo silenzio

piuttosto che pel tuo troppo parlare.

Scendano sul tuo capo

quanti doni vorrà largirti il cielo

ed intercederti le mie preghiere.

 

Addio. Signor Lafeu, questo ragazzo

ancora troppo acerbo cortigiano,

consigliatelo voi, mio buon signore.

 

LAFEU -

Non può mancar di ricevere il meglio

chi si prodigherà con devozione.

 

CONTESSA -

Che Dio lo benedica. Addio, Bertramo,

 

 

(Esce)

 

BERTRAMO -

(Rialzandosi)

Vi secondino quanti più bei voti

la vostra mente possa formulare.

(A Elena)

Siate voi di conforto ora a mia madre,

vostra signora, e abbiatene assai cura.

 

LAFEU -

Vi saluto, graziosa damigella;

conservatevi degna della stima

goduta dall’insigne vostro padre.

 

 

(Escono Bertramo e Lafeu)

 

ELENA -

Ah, fosse solo questo!

Non a mio padre io penso ora piangendo,

se pur queste mie lacrime lo onorino

più di quelle versate allor per lui…

Com’era?… Non me lo ricordo più.

Nella memoria mia c’è solo un volto,

il volto di Bertramo…

Per me è finita. Con Bertramo via,

no, no, non vivo più;

tanto varrebbe ch’io m’innamorassi

d’un astro risplendente,

- ché come un astro ei splende su di me -,

e pretendessi di farlo mio sposo;

e dovessi soltanto accontentarmi

di contemplar la sua luce rifratta,

come in un’orbita collaterale,

senza poter entrare in quella sua.

Così trova in se stesso il suo castigo

il mio amore ambizioso: la cerbiatta

bramosa d’accoppiarsi col leone

è destinata a morire d’amore.

Così dolce era stato fino ad ora,

se pur dolce tortura,

poterlo veder sempre, a tutte l’ore,

poter stare seduta a disegnare

con la mente sul foglio del mio cuore

la bella arcata delle sue sopracciglia,

il suo occhio di falco, le sue ciocche

 

di riccioli… ah, mio cuore,

troppo sensibile a lasciarti imprimere

da ogni linea, ogni curva, ogni tratto

del suo volto armonioso!… E se n’è andato,

e la mia fantasia che l’idolatra

deve ora adorar le sue vestigia…

Ma chi arriva qui ora?..

 

 

Entra, dal fondo, PAROLLES

 

 

Questi è uno che parte insieme a lui;

per questo m’è simpatico;

anche se so ch’è un vero trappolone,

un vanesio ed un fiore di codardo;

tuttavia questi vizi congeniali

gli si attagliano sì perfettamente

da trovar sempre facile indulgenza,

mentre in lui la virtù,

malgrado le sue vertebre d’acciaio,

sembra rabbrividire al vento gelido.

È così che vediamo tante volte

l’infreddolita saggezza al servizio

della sovrabbondante balordaggine!

 

PAROLLES -

Salute a voi, leggiadra reginella!

 

ELENA -

E a voi, monarca.

 

PAROLLES -

Eh, no!

 

ELENA -

Nemmeno io!([2])

 

PAROLLES -

Meditavate forse

sulla verginità?

 

ELENA -

Sì, giustappunto.

Anzi, voi che avete

una patinatura di soldato,

vi voglio fare una domanda: l’uomo

è nemico della verginità:

come si fa noi donne a barricarsi

contro di lui?

 

PAROLLES -

Chiudendogli la porta.

 

ELENA -

Grazie tante, ma lui vi dà l’assalto,

e la verginità, ch’è femminile,

per valorosa che possa mostrarsi,

è sempre debole nella difesa.

Istruiteci voi

in qualche strategia di resistenza.

 

PAROLLES -

Non ce n’è. L’uomo vi cinge d’assedio,

vi piazza qualche mina sotterranea,

e vi farà scoppiar come un pallone.([3])

 

ELENA -

La nostra povera verginità!

Dio la salvi da mine sotterranee

e da chi ci vuol far saltare in aria!

Non c’è nessuna strategia di guerra

con la quale le vergini

possano far saltare in aria gli uomini?

 

PAROLLES -

Eh, una volta che la verginità

è messa spalle a terra,

tanto più l’uomo può saltare in aria;

e poi, per farlo scaricare a terra

vi lascerete aprire una tal breccia

che addio la vostra bella cittadella!

Nella repubblica della natura

non v’è cittadinanza alla politica

di preservare la verginità.

La perdita della verginità

è, in natura, un acquisto razionale;

e mai vergine venne generata

senza che prima la verginità

fosse state perduta.

Anche voi siete fatta della lega

con la quale si coniano le vergini.

Per ciascuna verginità perduta

se ne possono ritrovare dieci;

verginità conservata per sempre

è per sempre perduta. Liberatevene.

È una compagna troppo freddolosa.

 

ELENA -

E invece io vorrei tenerla ancora,

a costo di dover morire vergine.

 

PAROLLES -

C’è ben poco da dire

a voler perorare in sua difesa:

 

essa è contro la legge di natura.

A perorar per la verginità,

si mette sotto accusa nostra madre:

che è chiara prova di disobbedienza.

Verginità e suicidio son tutt’uno;

la vergine che vuol restare vergine

è una che decide d’impiccarsi,

e dovrebbe trovare sepoltura

ai bordi delle grandi vie maestre,

lontano da ogni terra consacrata,

come una disperata peccatrice

contro natura. La verginità,

come il formaggio, genera dei vermi,

si consuma da sé fino alla crosta

e muore divorando le sue viscere.

Inoltre la verginità è stizzosa,

ambiziosa, superba, neghittosa

e soprattutto intrisa di egoismo,

il più proibito fra tutti i peccati

dai canoni delle scritture sacre.

Badate a non tenervela ben stretta:

non potreste che rimanere in perdita.

Datela via! Ed in capo ad un anno,

garantito, l’avrete raddoppiata:

un interesse davvero cospicuo,

e per nulla intaccando il capitale.

Vi convien liberarvene!

 

ELENA -

E che dovrebbe fare allora una,

che la vorrebbe perdere a suo gusto?

 

PAROLLES -

Vediamo un po’… Eh, sì, trattarla male,

magari offrendola a chi non la vuole.

È una merce che perde il proprio smalto

se lasciata a giacere in magazzino:

più ce la tieni, più cala di prezzo.

Smerciarla fino a tanto che è vendibile;

soddisfar la domanda di mercato

a tempo giusto. La verginità,

simile ad un anziano cortigiano,

porta in testa un cappello fuori moda,

un vestiario sontuoso ma impossibile,

come i fermagli e gli stuzzicadenti,

che non sono più in uso in società.([4])

 

È meglio un dattero nel vostro porridge

che una data sopra la vostra guancia.([5])

E la verginità, la vostra buona

vecchia verginità,

somiglia tanto a quelle pere vizze

di Francia, brutte fuori e dentro acide;

eh, sì, perdio, proprio una pera vizza,

che un tempo sarà stata anche assai buona,

ma adesso è vizza. Che volete farci?

 

ELENA -

Quella mia, non ancora… Il tuo padrone

troverà mille amori dove va:

una gli sarà madre, amante e amica;

qualcun’altra sarà la sua fenice,([6])

sua capitana e insieme sua nemica;

un’altra la sua dea, la sua sovrana;

una, da lui amata ma infedele,

sarà la sua umile superbia,

e insieme la superba sua umiltà,

il suo discorde accordo

e la sua armoniosa dissonanza,

la sua fede, la sua dolce rovina;

con tutto un mondo di nomi e nomignoli,

graziosi e pazzi, tenuti a battesino

da Cupido bendato… E allora lui…

che farà, non lo so… Dio lo protegga!

La corte è un tal cosa, ed egli è uno…

 

PAROLLES -

Uno che cosa?

 

ELENA -

… uno al quale io auguro

tutto il bene del mondo.

Però peccato…

 

PAROLLES -

Peccato che cosa?

 

ELENA -

Che gli augùri non abbiano in se stessi

corporea consistenza, sì che a noi,

che siamo di più umili natali,

da meno nobili stelle protetti,

sia concesso di offrire ai nostri amici

anche gli effetti di quei nostri auguri,

e di mostrare loro tutto ciò

che, rimanendo chiuso nel pensiero,

mai ci procurerà ringraziamenti.

 

 

Entra un PAGGIO

 

PAGGIO -

Monsieur Parolles, vi vuole il padrone.

 

 

(Esce)

 

PAROLLES -

Elena, arrivederci.

Se a corte mi ricorderò di te,

ci farò volentieri un pensierino.

 

ELENA -

Voi siete nato sotto buona stella,

monsieur Parolles.

 

PAROLLES -

Io? Sì, sotto Marte.

 

ELENA -

Proprio come pensavo: sotto Marte.

 

PAROLLES -

Perché “sotto”? Intendete “sottoposto”?

 

ELENA -

Le guerre v’han tenuto tanto “sotto”

che dovevate nascere per forza

sotto Marte.

 

PAROLLES -

Ah, sì, Marte ascendente.

 

ELENA -

Direi piuttosto Marte rientrante.

 

PAROLLES -

Perché rientrante?

 

ELENA -

Perché nel combattere

retrocedete sempre.

 

PAROLLES -

È una mia tattica

per prendere vantaggio.

 

ELENA -

Anche la fuga può recar vantaggio

quando a salvar la pelle

consigliera è la fifa. E in voi, monsieur,

fifa e coraggio sono fusi insieme

 

in maniera davvero prodigiosa

nella virtù di metter l’ali ai piedi;

ed apprezzo com’essa vi si addice.

 

PAROLLES -

Son troppo indaffarato

per stare qui a competere d’arguzia

con te; ma al mio ritorno

sarò un perfetto cortigiano in tutto,([7])

e la mia esperienza servirà

ad istruirti alla naturalezza,

sì che tu sia matura a ben accogliere

quello che ti consiglia un cortigiano

ed a capirne il senso e la portata;

se poi di tanto non sarai capace,

ti uccida la tua ingratitudine,([8])

e ti distrugga la tua ignoranza.

Addio. Quando ti resta un po’ di tempo,

di’ le tue orazioni;

e quando non ne hai, pensa agli amici.

Pigliati un buon marito,

e con lui pòrtati allo stesso modo

che lui con te. E così, ti saluto.

 

 

(Esce)

 

ELENA -

Spesso i rimedi che ascriviamo al cielo

stanno in noi stessi. Il fatidico cielo

ci lascia piena libertà di agire,

e sol fa pigre le nostre intenzioni

se pigri siamo noi ad eseguirle.

Che potenza è mai questa

che attrae l’amore mio a tanta altezza

da far ch’io veda cosa

di cui il mio occhio mai può dirsi sazio?

La natura fa unire e combaciare

da pari a pari come nate insieme

sostanze fra le quali la fortuna

ha aperto spazi immensi.

Le grandi imprese son solo impossibili

a chi misura fatica ed impegno

che sono necessari a realizzarle

col metro del raziocinio comune,

e ritiene che ciò ch’è già successo

non possa più ripetersi nel tempo.

Ci fu mai donna innamorata al mondo

che, avendo fatto tutto il suo possibile

 

per mostrar quanto vale,

non si sia poi conquistato l’amore?…

La malattia del re…

Forse l’impresa mia potrà fallire,

ma le mie intenzioni sono ferme,

né mi verranno meno a porla in atto.

 

 

(Esce)

 

 

 

SCENA II - Parigi, il palazzo reale.

 

Fanfara di cornette. Entra il RE DI FRANCIA,

con in mano una lettera, e con CORTIGIANI.

 

RE -

Fiorentini e senesi sono in guerra.

Finora han combattuto a sorti pari,

e seguitano a darsele di brutto.

 

PRIMO CORTIGIANO -

Così ci viene riferito, sire.

 

RE -

E c’è da crederci. Lo dà per certo,

d’altronde qui nostro cugino Austria,

(Mostra la lettera)

e ci avverte altresì che i Fiorentini

ci chiederanno aiuti; al qual proposito

il nostro caro parente, mi sembra,

anticipando ogni nostro giudizio,

vorrebbe che opponessimo un rifiuto.

 

PRIMO CORTIGIANO -

Il suo affetto per voi e la saggezza

di cui v’ha dato spesso prove, sire,

perorano per lui il più alto credito.

 

RE -

Il suo consiglio infatti ci ha convinti

della risposta che dobbiamo dare:

e Firenze([9]) s’avrà da noi un “no”

prima ancora di farci la richiesta.

Ciò non toglie che tutti i nostri nobili

che intendano combattere in Toscana

possano aver da noi ampia licenza

di schierarsi con l’una o l’altra parte.

 

SECONDO CORTIGIANO -

Ciò potrà ben servir da addestramento

pei nostri nobili, così bramosi

di respiri e d’azione all’aria libera.

Ma chi arriva?

 

PRIMO CORTIGIANO -

È il giovane Bertramo,

conte di Rossiglione, mio signore.

 

 

Entrano BERTRAMO e PAROLLES

 

RE -

(A Bertramo, scrutandolo dall’alto in basso)

Giovane, tu hai il volto di tuo padre:

la prodiga natura,

più provvida e studiosa che avventata,

t’ha conformato bene.

Possa tu derivare da tuo padre

anche le belle sue virtù morali.

Benvenuto a Parigi.

 

BERTRAMO -

Grazie, sire.

V’offro la piena mia disposizione.

 

RE -

Ah, riaver nelle membra quel vigore

di quando ci cimentavamo insieme

da amici, nelle prime prove d’armi!

Egli s’addentrò poi più pienamente

nell’arte militare di quel tempo,

alla scuola dei più grandi strateghi,

e ci rimase a lungo; ma l’età,

questa infernale perfida nemica,

scese furtiva poi sui nostri corpi,

e ci ridusse entrambi fuori d’uso.

Mi reca proprio gran sollievo al cuore

parlare di quell’ottima persona

che fu tuo padre: egli ebbe, in giovinezza,

quello spirito, vivido, frizzante

che possiamo bensì ben osservare

nella giovane nobiltà di adesso;

ma costoro s’esercitano invano

nell’arte dell’arguzia: i lor motteggi

non saranno notati da nessuno

e si ritorceranno su di loro

fino a quando non si decideranno

a nasconder la loro leggerezza

col merito, sul campo dell’onore.([10])

 

Cortigiano perfetto,

erano in lui fierezza ed ardimento

completamente scevri tuttavia

da rudezza o alterigia;

e s’era in lui di queste qualche volta

alcuna traccia, n’erano motivo

persone del suo rango, e il suo onore,

in quei casi, clessidra di se stesso,

conosceva l’esatto modo e tempo

in cui dar voce al biasimo, e la lingua

si faceva obbediente alla sua mano.

Gli inferiori trattava come pari,

chinando al lor livello la sua altezza,

e, umiliato dall’umile lor lode,

s’inorgogliva della sua umiltà.

Un tal uomo potrebbe esser modello

a questi nostri più giovani tempi,

e, ben seguito, ci farebbe accorgere

quanto siano involuti e in declino.

 

BERTRAMO -

Vedo, maestà, che in voi la sua memoria

splende più viva e ricca

che sopra la sua tomba; il suo epitaffio

non lo dipinge là altrettanto vero

quanto questi regali vostri accenti.

 

RE -

Potessi averlo ancora qui con me!

Diceva sempre (mi par di sentirlo:

le sue parole, sempre sì sagaci,

non le versava solo negli orecchi,

le innestava negli animi degli altri

perché crescessero e fruttificassero),

diceva sempre, quando l’umor triste

lo prendeva alla fine e come seguito

dei momenti di gran spensieratezza:

“Non fatemi più vivere,

“quando ad alimentare la mia fiamma

“non ci sarà più olio sufficiente;

“ch’io non abbia a restare lo stoppino

“fumoso in mezzo a più giovani spiriti

“i cui vigili sensi hanno a disdegno

“tutto che non sia nuovo,

“e i cui cervelli altro non san fare

“che inventar nuove mode,

“che duran meno della stessa moda”.

Questo augurio faceva egli a se stesso;

e questo è ora il mio, dopo di lui:

 

poiché non posso più portare a casa

cera o miele, ch’io possa scomparire

rapidamente dal mio alveare,

per lasciar posto alle nuove operaie.

 

SECONDO CORTIGIANO -

Voi siete amato, sire.

E coloro che v’amano di meno

sentiranno per primi la mancanza

di vostra altezza, se ci mancherete.

 

RE -

Certo, occupo un posto.

(A Bertramo)

Conte, da quanto tempo è deceduto

il medico di casa di tuo padre?

Era un nome famoso.

 

BERTRAMO -

Son circa sei mesi, mio signore.

 

RE -

Se fosse ancora vivo,

avrei potuto forse far ricorso

con migliore speranza alle sue cure…

Datemi il braccio… Gli altri m’han consunto

a forza di provare e riprovare…

Ormai in me natura e malattia

baruffano a lor pieno piacimento.

Sii benvenuto conte,

non mi sei meno caro tu di un figlio.

 

BERTRAMO -

Grazie a vostra maestà.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA III - Rossiglione, il palazzo del conte.

 

Entrano la CONTESSA, RINALDO e IL LAVA([11])

 

LA CONTESSA -

Ora posso ascoltarvi: che mi dite

di questa gentildonna?([12])

 

RINALDO -

Mia signora,

la mia sollecitudine costante

nel soddisfare i vostri desideri

spero si trovi scritta nel curriculo

dei miei servizi resi fino ad oggi;

ché a metterci a vantare noi per primi

i nostri meriti, facciamo torto

in primo luogo alla nostra modestia,

e insozziamo la loro limpidezza.

 

CONTESSA -

(Verso il buffone)

Che ci sta a fare qui questo gaglioffo?

Via, via, messere! È solo per pigrizia

che non do credito alle lamentele

che sento numerose sul tuo conto;

perché so che sei stupido abbastanza

da combinare ogni sorta di guai

ed abbastanza abile

da commettere certe birbonate.([13])

 

LAVA -

Non v’è ignoto, signora,

ch’io sono un poveraccio.

 

CONTESSA -

Bene, Lava.

 

LAVA -

Eh, no, non tanto bene ch’io sia povero,

anche s’è vero che son molti i ricchi

che si dannano; ma se vostra grazia

mi dà il permesso di metter su casa,

Isbèl ed io (Isbèl è la mia donna)

ce la potremo cavare alla meglio.

 

CONTESSA -

Ti vuoi ridurre a chieder l’elemosina?

 

LAVA -

Comincio intanto a chieder l’elemosina

del vostro beneplacito, nel caso.

 

CONTESSA -

Quale caso?

 

LAVA -

D’Isbèl e mio, signora.

La servitù non è ereditaria,

e credo che non avrò mai dal cielo

la sua benedizione fino a tanto

che non avrò una prole dei miei lombi;

i figli sono infatti, come dicono,

sante benedizioni.

 

CONTESSA -

Ma il motivo

per il quale t’induci a prender moglie?

 

LAVA -

Lo richiedono i poveri miei lombi,

signora; mi ci pungola la carne,

e se il diavolo pungola, signora,

non c’è niente da fare, ci si va.

 

CONTESSA -

Tutti qui i motivi che sa addurmi

vossignoria?

 

LAVA -

Oh, in coscienza, signora,

ce n’è altri, ed altrettanto sacri.

 

CONTESSA -

Può conoscerli il mondo dei mortali?

 

LAVA -

Signora, sono stato un peccatore

come voi, come tutti in carne e sangue,

e mi sposo perché possa pentirmi.

 

CONTESSA -

Ti pentirai di esserti sposato

prima di tutti gli altri tuoi peccati.

 

LAVA -

Non ho amici, signora; e spero bene

poterne avere in grazia di mia moglie.

 

CONTESSA -

Gli amici che ti fa “in grazia sua”,

brutto furfante, sono tuoi nemici.

 

LAVA -

Vedo, signora, che in fatto di amici

non ne capite molto:

quei furfanti faranno al posto mio

quello ch’io sono ormai stufo di fare.

Chi ara la mia terra al posto mio

fa risparmiare fatica ai miei buoi

e lascia poi a me tutto il raccolto.

Se mi tiene per becco,

è lui il mio bracciante tuttofare;

chi diverte mia moglie fa un servizio

a pro della mia carne e del mio sangue;

e chi della mia carne e del mio sangue

si dà premura, vuol dire che l’ama;

e chi ama la mia carne e il mio sangue

vuol dire ch’è mio amico:

ergo chi fa l’amore con mia moglie

mi fornisce una prova d’amicizia.

Se tutti gli uomini fossero paghi

e soddisfatti di quello che sono,

il matrimonio non avrebbe rischi.

Il giovin Cotoletta puritano

ed il vecchio papista Mangiapesce,([14])

per divisi che siano i loro cuori

in quanto alla lor fede religiosa,

 

in quanto a comprendonio son tutt’uno:

potrebbero scornarsi l’un con l’altro

come due cervi dello stesso branco.

 

CONTESSA -

Quando la smetterai, grossa canaglia,

d’essere uno sboccato maldicente?

 

LAVA -

Sono un profeta, signora, un profeta

che dice il vero senza mezzi termini:

“Io vi ricanterò qui la ballata

“che l’uomo sempre vera ha ritrovata:

“i matrimoni il fato li procura,

“ma il cucù cantò sempre per natura”.([15])

 

CONTESSA -

Adesso va’; ne riparliamo dopo.

 

RINALDO -

Vi piaccia incaricare lui, signora,

di dire ad Elena di venir qui,

perché è di lei che vi dovrei parlare.

 

CONTESSA -

Messere, andate a dire alla mia dama,

Elena, intendo, che vorrei parlarle.

 

LAVA -

(Cantando)

“Lei disse: fu per questa bella faccia

“che i Greci andarono a bruciare Troia?

“Fu certo un’azionaccia.

“Fu ella forse di Priamo la gioia?

“Su questo sospirando si fermò

“e poi così parlò:

“se in mezzo a nove una buona ce n’è,

“una buona su dieci sempre c’è.”

 

CONTESSA -

Che! Una buona su dieci?

Sciagurato, mi stroppi la canzone!

 

LAVA -

Non la stroppio, signora, ve la spurgo,

dicendo che su dieci almeno una

ce n’è di buona. Dio così volesse

provvedere di anno in anno il mondo!

S’io fossi il loro parroco,

con una tale decima di donne

non avrei proprio nulla da ridire.([16])

 

Una su dieci, dice, eh? Che pacchia!

Ne nascesse una buona

solo ad ogni passaggio di cometa

o sol magari ad ogni terremoto,

 

se n’alzerebbe subito la media

nell’urna della loro lotteria;([17])

oggigiorno ad un uomo è più facile

estrarre dal suo petto il proprio cuore

che estrarre da quell’urna quella giusta.

 

CONTESSA -

Adesso però va’, messer briccone,

a fare quello che t’ho comandato.

 

LAVA -

Guarda un po’ come deve andare il mondo!

Che un uomo debba esser comandato

da una donna, senza che il mondo crolli.

L’onestà se non è sol puritana,

non fa male a nessuno;

basta che si rassegni ad indossare

la cotta candida dell’umiltà

sulla tonaca nera d’un gran cuore.([18])

Va bene, me ne vado!

Dirò ad Elena di venir qui.

 

 

(Esce)

 

CONTESSA -

Bene. Allora sentiamo. Dicevate?

 

RINALDO -

Io so, signora, quanto voi amiate

questa giovane vostra nobil dama.

 

CONTESSA -

Sì, molto, in fede mia, lo posso dire.

Suo padre l’ha lasciata a me affidata,

e, del resto, pur senza altra cagione,

ella, di per se stessa, ha pieno titolo

a ricevere quanto affetto trova;

merita più di quanto le vien dato,

ed io farò che le sia sempre dato

più di quanto ella possa domandare.

 

RINALDO -

Signora, vi dirò, mi son trovato,

non visto, poco fa vicino a lei,

più ch’ella, penso, non desiderasse.

 

Era sola e parlava con se stessa

ad alta voce, per le proprie orecchie,

convinta, giurerei, che nessun altro

stesse lì ad udir le sue parole.

Il cui tenore, si capiva bene,

era l’amore suo per vostro figlio.

La Fortuna - ho sentito che diceva -,

non è una dea, se ha posto tra noi due

tanta disparità di condizioni;

nemmeno è un dio Amore,

se usa esercitare il suo potere

solo tra due che son di pari rango;

né Diana è la patrona delle vergini,

se lascia che una povera sua adepta

venga colta indifesa al primo assalto,

senza speranza poi d’esser da lei

riscattata. E diceva tutto questo

con un amaro accento di dolore

quale mai profferire avevo udito

dalle labbra di vergine fanciulla;

e ho creduto che fosse mio dovere

 

portarvene senz’altro a conoscenza,

perché se danno dovesse venirne,

voi non foste senz’esserne al corrente.

 

CONTESSA -

E bene avete fatto ad informarmene.

Tenetelo però solo per voi.

Della faccenda m’ero già avveduta

per molti segni, ma così oscillanti

sulla bilancia del mio sospettare,

da non saper se crederlo o non crederlo.

Ora andate pei fatti vostri, prego,

e grazie per il vostro onesto zelo.

Più tardi avrò qualcosa ancor da dirvi.

 

 

(Esce Rinaldo)

 

 

È accaduto anche a me, in gioventù;

son cose di natura,

e noi della natura siamo figlie.

Questa spina appartiene giustamente

alla rosa dell’età nostra giovane;

è nostro sangue, ed è nata con esso.

È della realtà della natura

segno e sigillo l’amorosa impronta

ch’è stampata nell’animo dei giovani.

A ricordare i nostri giorni andati,

tali erano altresì i peccati nostri,

che non erano tali allor per noi.

 

 

Entra ELENA

 

 

(A parte)

E quel peccato lei, lo vedo bene,

ora, ce l’ha nell’occhio.

 

ELENA -

Mi volevate parlare, signora?

 

CONTESSA -

Tu sai ch’io sono, Elena, una madre

per te.

 

ELENA -

La mia onorata signora.

 

CONTESSA -

No, una madre. Perché non una madre?

Quando ho detto “una madre” m’è sembrato

che avessi visto un serpe!

Che cosa c’è nella parola “madre”

da farti trasalire in questo modo?

Dico che son tua madre,

perché ti annovero fra le creature

che ho portate nel grembo.

Non di rado si vede l’adozione

stare al pari con la paternità,

e un’estranea sementa

riprodurci un indigeno virgulto.

Tu non m’hai fatto gemere di doglie

e tuttavia per te ho mostrato sempre

le cure d’una madre per la figlia.

Ragazza mia, per carità di Dio,

ti senti proprio raggelare il sangue

al sentir dire che sono tua madre?

Che hai? Perché ti cerchia le pupille

Iride variopinta, l’inclemente

messaggera di pianto?

Tanto ti duole d’esser mia figlia?

 

ELENA -

Di non esserlo, anzi.

 

CONTESSA -

Ma se ti dico che sono tua madre!

 

ELENA -

Dovrei chiamare allora mio fratello

il conte vostro figlio?…

No, signora, dovete perdonare,

ma questo non può essere. Il mio nome

è umile, il suo chiaro ed illustre;

nessuno della mia famiglia è nobile,

della sua tutti; egli è il mio padrone,

il mio caro signore, ed io sua serva:

e tale voglio vivere e morire.

Non può essere egli mio fratello.

 

CONTESSA -

Né io tua madre?

 

ELENA -

Voi, lo siete, sì,

e vorrei tanto lo foste davvero,

purché il mio signore vostro figlio…

non fosse mio fratello! Vorrei, sì,

che voi foste la madre sua e mia,

nulla più ardentemente chiedo al cielo:

vostra figlia, senza esser sua sorella.

Non può darsi altrimenti

che, essendo tuttavia io figlia vostra,

egli non debba essermi fratello?

 

CONTESSA -

Sì, Elena, se tu fossi, mia nuora.

Dio non voglia che tu sia refrattaria

a un tal pensiero!([19]) Tanto ti sconvolgono

questi due nomi di “madre” e di “figlia”?

Impallidisci ancora? I miei timori

scopron la tua passione. Ora m’è chiaro

il mistero della tua solitudine,

e la fonte delle tue salse lacrime.

Ora mi appare del tutto lampante:

tu sei innamorata di mio figlio.

Fantasiose menzogne

con le quali cercassi di negare

un sentimento così manifesto

non valgono. Pertanto sii sincera,

e dimmi che è così, ché le tue guance,

vedi?, se lo confessano a vicenda;

e i tuoi occhi, che parlano a lor modo,

lo vedono mostrato sì palese

nel tuo contegno; solo il tuo peccato

e una colpevole ostinazione

ti legano la lingua

a far sospetta ancor la verità.

Parla, è così? Se davvero è così,

hai ingarbugliato una bella matassa;

e se non è, giurami che non è;

 

comunque t’ordino, dinnanzi al cielo

che potrà anche servirsi di me

per il tuo bene: di’ la verità.

 

ELENA -

Perdono, mia signora!

 

CONTESSA -

Ami mio figlio?

 

ELENA -

Voi non l’amate?

 

CONTESSA -

Non tergiversare:

il mio amore per lui

viene da vincolo a tutti noto.

Avanti, su, rivelami il tuo animo,

perché le tue reazioni

l’hanno già pienamente denunciato.

 

ELENA -

Ebbene, sì, confesso qui in ginocchio

innanzi al cielo e a voi,

che più di voi e solo al ciel secondo,

amo perdutamente vostro figlio.

La mia gente era povera ma onesta;

così il mio amore. Ma non vi adombrate,

ché non gli porta danno essere amato

da una come me. Non lo perseguo

con nessun segno di corteggiamento

presuntuoso, né lo vorrei per me

fin quando non lo avessi meritato,

se pur ancor non so per qual mio merito.

Io so di amare invano,

e di sperare contro ogni speranza;

eppure seguito a riversare

dentro questo ingannevole crivello

incapace di contenerla tutta

la piena straripante del mio amore,

sapendo ch’essa se ne va dispersa;

così, al pari d’un idolatra indiano,

vivo adorando il sole

che volge i raggi sopra il suo devoto,

ma non per questo sa chi esso sia.

Mia signora carissima,

non fate che il vostro odio prenda l’armi

contro l’amore mio, solo perché

amo colui che anche voi amate;

ma se voi stessa, il cui maturo onore

attesta una virtuosa giovinezza,

provaste al vostro tempo una tal fiamma

avvivata da casto e puro affetto,

 

sì che la vostra Diana era anche Venere,([20])

abbiate compassione, vi scongiuro,

d’una il cui stato non offre altra scelta

che prestare e donar nella certezza

di non avere mai restituzione;

d’una che non va in cerca per trovare

 

quello di cui va in cerca,

ma, come nell’enigma della favola,([21])

vive la gioia che la fa morire.

 

CONTESSA -

Non avevi intenzione ultimamente

di recarti a Parigi?

 

ELENA -

Sì, signora.

 

CONTESSA -

A far che cosa? Di’ la verità.

 

ELENA -

Ve la dirò, signora, innanzi a Dio.

Voi sapete che, prima di morire,

mio padre mi lasciò delle ricette

di prodigiosa e provata efficacia

che gli studi e la sperimentazione

gli avevano permesso di comporre

come rimedi di sovrano effetto;

e che mi comandò, per testamento,

di custodirle con estrema cura

siccome contenenti proprietà

superiori alla indicazione esterna.([22])

Tra le altre è indicato uno specifico,

di già provata sperimentazione,

che può curare il male disperato

di cui si dice stia morendo il re.

 

CONTESSA -

Era questo il tuo unico motivo

per andare a Parigi? Parla franco.

 

ELENA -

Sì, signora.