Una buona notizia!

Ora avrai anche una nuova padrona.

 

PAROLLES -

Debbo sinceramente scongiurare

un’altra volta vostra signoria

di trattenersi dal recarmi offesa.

Il conte è il mio signore.

Il padrone che servo sta più in alto.

 

LAFEU -

Chi, Dio?

 

PAROLLES -

Appunto.

 

LAFEU -

Il tuo padrone è il diavolo.

Perché ti leghi quelle giarrettiere

alle maniche? Porti certe maniche

che paiono due braghe.

Fan così anche gli altri servitori?

 

Tanto varrebbe che ne andassi in giro

col deretano al posto della faccia.([50])

Foss’io più giovane, non dico tanto,

d’un paio d’ore, ti bastonerei.

Perché tu, a mio avviso, in quell’arnese,

sei davvero un’offesa universale,

e le dovresti prendere da tutti.

Tu sei stato creato, a mio parere,

perché il mondo s’alleni a schiaffeggiarti.

 

PAROLLES -

Questo è un brutale modo di parlare

ch’io non merito affatto, monsignore.

 

LAFEU -

Va’ là, messere, ch’io so che in Italia

l’hai prese sode per aver rubato

un acino da un melograno, un chicco;

tu sei un vagabondo,

altro che il grande e noto viaggiatore

che ti vanti di essere. Coi nobili

 

e con l’altre persone d’alto rango

ti permetti di prenderti licenze

più di quanto non te diano titolo

la tua nascita e quello che tu vali.

Se volessi sprecare la parola,

ti chiamerei canaglia. Ti saluto.

 

 

(Esce)

 

PAROLLES -

Bene, benissimo… dunque è così.

Pel momento, facciam finta di niente…

 

 

Entra BERTRAMO

 

BERTRAMO -

Rovinato! Inguaiato per la vita!

 

PAROLLES -

Che succede, dolcezza?

 

BERTRAMO -

Succede che benché l’abbia giurato

solenne e sacrosanto avanti al prete,

quella, a letto con me, non ce la porto!

 

PAROLLES -

Come, come, dolcezza?

 

BERTRAMO -

Parolles, amico mio, m’han dato moglie!

In Toscana io vado, a far la guerra,

ma quella, a letto io non me la porto!

 

PAROLLES -

Oh, hai ragione, sì, via dalla Francia!

È una buca da cani, questa Francia,

e non merita più che piede umano

la calpesti. Alla guerra, sì, alla guerra!

 

BERTRAMO -

Ho qui una lettera da casa mia.

È di mia madre, non l’ho ancora aperta.

 

PAROLLES -

Ci sarà tempo a leggerla.

Ora si va alla guerra, giovanotto.

Custodisce l’onore in un astuccio

chi resta ozioso a casa a non far altro

che stringer tra le braccia la sua bella,

sprecando in braccio a lei quel vigor maschio

che dovrebbe servirgli a controllare

gli scarti e le impennate del destriero

rutilante di Marte. Ad altre prode!

Questa Francia è una stalla,

e noi che ci restiamo dei ronzini.

Perciò, alla guerra!

 

BERTRAMO -

Ed io così farò.

La rispedisco a casa da mia madre,

non senza aver informato costei

di quanto io detesti quella donna,

e che appunto per questo son partito.

E da lontano poi scriverò al re

tutto quello che non ho avuto l’animo

di dirgli in faccia. Così apprenderà

che questo bel servizio che m’ha fatto

sarà solo servito a incoraggiarmi

a partire per quei campi italiani

dove si scontrano nobili spiriti.

La guerra è cosa di poca fatica,

a fronte di una casa manicomio

in compagnia d’una moglie aborrita.

 

PAROLLES -

Sei sicuro che questo tuo capriccio

ti durerà nel tempo?

 

BERTRAMO -

Vieni con me in camera e consigliami.

La spedisco via subito. Domani,

io alla guerra, e lei al suo rammarico

di zitella.

 

PAROLLES -

Eh, là, là, palla e rimpallo!

Un bel pasticcio! Giovane ammogliato,

uomo inguaiato. Perciò via, coraggio,

piantala e va’! Il re t’ha fatto torto?

Così è, zitto e mosca!

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA IV - Parigi, altra sala del palazzo reale.

 

Entrano ELENA leggendo una lettera e IL LAVA

 

ELENA -

Mia madre mi saluta. Ben gentile.

Sta bene?

 

LAVA -

Proprio bene non direi;

ma sta in salute, tutta vispa e allegra;

però bene non sta; ma, grazie al cielo,

sta benissimo e non le manca nulla.

Però, bene non sta.

 

ELENA -

Se sta benissimo,

che cos’ha, da non farla stare bene?

 

LAVA -

Ecco, in coscienza, starebbe benissimo,

tranne che per due cose.

 

ELENA -

Quali cose?

 

LAVA -

Una, che non è in cielo;

e piaccia a Dio di chiamarcela presto;

e due, che invece è in terra,

donde Dio voglia toglierla al più presto.

 

 

Entra PAROLLES

 

PAROLLES -

Fortunata signora, Dio vi salvi!

 

ELENA -

Spero trovarvi sempre premuroso

della mia buona fortuna, signore.

 

PAROLLES -

Ho pregato perché così l’aveste,

e seguito a pregare

ch’essa così vi duri conservata.

 

 

(Al Lava)

Ehi là, tu qui, furfante?

E la mia vecchia dama come sta?

 

LAVA -

Sta così: che se avessimo noi due

voi le sue rughe in faccia,

io i suoi soldi, avrei tanto piacere

che stesse come avete detto voi.

 

PAROLLES -

Io non ho detto niente.

 

LAVA -

E avete fatto bene a non dir niente,

perché più d’un padrone

è stato rovinato dalla lingua

dei suoi servi. Dir niente, fare niente,

niente sapere, niente possedere

sono gran parte del vostro blasone,

di nobiltà, ch’è assai vicino a niente.

 

PAROLLES -

Va’, va’, che sei il solito gaglioffo.

 

LAVA -

Sarebbe stato meglio che diceste:

“Sei un gaglioffo in faccia ad un gaglioffo”,

ossia: “Gaglioffo tu, gaglioffo io”,

che sarebbe la santa verità.

 

PAROLLES -

Va’ va’, sei un buffone sotto spirito:

ecco che cosa sei; t’ho ben scoperto.

 

LAVA -

E m’avete scoperto da voi solo,

o ve l’ha indicato qualcun altro?

 

PAROLLES -

Da me, furfante.

 

LAVA -

Ah, sì, in casa vostra?

La ricerca v’ha dato buoni frutti,

allora, perché proprio in casa vostra,

è un tal buffone da spassare il mondo

e far crepare tutti dalle risa.

 

PAROLLES -

(A Elena)

Una buona canaglia, e ben nutrito.

Signora, il conte parte questa sera:

lo reclamano affari molto seri.

È cosciente dei grandi privilegi

e dei riti d’amore che quest’ora

imporrebbe siccome a voi dovuti;

ma indifferibili necessità

lo costringono ora a rinviarli;

questo differimento darà al tempo

di meglio distillar nel suo alambicco

le dolcezze, sicché l’ora ventura

trabocchi di letizia e di piacere.

 

ELENA -

Che cos’altro comanda il mio signore?

 

PAROLLES -

Che prendiate congedo istantemente

dal re, dicendogli che questa fretta

vien solo dalla vostra volontà,

corroborandola con quelle scuse

che pensiate la renda più plausibile.

 

ELENA -

Che altro mi comanda?

 

PAROLLES -

Che, una volta ottenuta tal licenza,

attendiate ulteriori sue istruzioni.

 

ELENA -

Farò tutto secondo il suo volere.

 

PAROLLES -

Glielo riferirò.

 

ELENA -

Sì, ve ne prego.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA V - La stessa.

 

Entrano BERTRAMO e LAFEU

 

LAFEU -

Voglio sperare che vossignoria

non lo consideri un buon soldato.

 

BERTRAMO -

Oh sì, e di valore a tutta prova.

 

LAFEU -

A prova solo delle sue parole.

 

BERTAMO -

E d’altri testimoni irrefutabili.

 

LAFEU -

Allora la mia bussola va male:

ho scambiato il fringuello per l’allodola.([51])

 

BERTRAMO -

Eppoi, signore, è uomo assai istruito

per quanto valoroso, v’assicuro.

 

LAFEU -

Avrò peccato contro il suo sapere

e trasgredito contro il suo valore,

allora: anima mia, sei in pericolo,

perché non sento proprio di pentirmi.

Ma eccolo. Vi prego intervenite

a far che mi diventi buon amico,

e io coltiverò quest’amicizia.

 

 

Entra PAROLLES

 

PAROLLES -

(A Bertramo)

Sarà tutto sbrigato, monsignore.

 

LAFEU -

(A Bertramo)

Signore, ditemi, chi è il suo sarto?

 

PAROLLES -

Signore!

 

LAFEU -

Ah, lo conosco. Già, “signore”,

lui, sì, buon artigiano, un bravo sarto.

 

BERTRAMO -

(A parte a Parolles)

È andata poi dal re?

 

PAROLLES -

Sì.

 

BERTRAMO -

Partirà?

 

PAROLLES -

Stasera, come le hai ordinato.

 

BERTRAMO -

La lettera a mia madre l’ho già scritta,

fatto il bagaglio e ordinato i cavalli;

sicché stanotte, quando dovrei prendere

possesso della sposa,

avrò finito prima d’iniziare.

 

LAFEU -

(A parte)([52])

Un grande viaggiatore

che al levar delle mense ti racconta

le avventure di viaggio, meno male;

ma uno che racconta fanfaluche

per due terzi del tempo, e ci rintrona

le orecchie di banalità arcinote

per gabellar le mille sue scemenze,

è da starlo a sentir solo una volta

e picchiarlo altre tre… Così costui.

(Forte a Parolles)

Salute, capitano!

 

BERTRAMO -

(A Lafeu)

C’è stato forse qualche dissapore

fra voi e questo signore, Monsieur?

 

PAROLLES -

Non so com’io possa aver meritato

di cadere in disgrazia con monsieur.

 

LAFEU -

Vi ci siete buttato anima e corpo,

con stivali, speroni e tutto il resto,

come uno ch’abbia voluto tuffarsi

in un mare di crema zabaione;

e adesso vi precipitate a uscirne

piuttosto che aspettar che vi si chieda

che diavolo ci state a far lì dentro.

 

BERTRAMO -

Forse lo avete giudicato male.

 

LAFEU -

E tale lo giudicherò per sempre,

dovessi pure coglierlo in preghiera.

Buona fortuna, conte, e, date retta:

sono noci senza gheriglio, queste.

Costui per anima ha il suo vestito:

non fategli fiducia,

almeno nelle cose più importanti.

Sono stato a contatto con più d’uno

di questi smidollati, e li conosco.

(A Parolles)

Addio, monsieur, ho parlato di voi

meglio di quanto abbiate meritato

o di quanto possiate meritare

ch’io lo faccia in futuro. Ma tant’è:

 

si deve rendere bene per male.

 

 

(Esce)

 

PAROLLES -

Un cervello un po’ ottuso, giurerei.

 

BERTRAMO -

Non m’è sembrato.

 

PAROLLES -

Che! Non lo conosci?

 

BERTRAMO -

Altro se lo conosco! E posso dirlo:

di lui parlano tutti con rispetto.

 

 

Entra ELENA

 

 

Ecco il mio piombo al piede.

 

ELENA -

Mio signore, ho parlato con il re,

secondo che m’avete comandato

ed ottenuto da lui la licenza

di partire da qui immediatamente.

Desidera però parlar con voi

in privato.

 

BERTRAMO -

Obbedisco al suo volere.

Non dovete meravigliarvi, Elena,

del mio contegno, che vi può sembrare

certamente non cònsono al momento,

né adempie alle funzioni ed ai doveri

 

che so d’essere miei. In verità

non ero preparato a un tale evento,

e sono stato colto alla sprovvista.

Ciò m’induce a pregarvi di partire

subito per la nostra residenza;

non domandatemi il perché di questo,

fatevene piuttosto una ragione

in voi stessa; perché le mie ragioni

son migliori di quanto non appiano,

ed i miei impegni sono più pressanti

di quanto può sembrare a prima vista,

a chi ne è all’oscuro, come voi.

Date questa a mia madre.

(Le dà una lettera)

Non ci vedremo prima di due giorni,

perciò vi affido alla vostra saggezza.

 

ELENA -

Signore, altra risposta non so darvi

che son la vostra umilissima serva…

 

BERTRAMO -

Su, su, basta così.

 

ELENA -

… e che sempre, con piena devozione,

cercherò di supplire a tutto ciò

che l’umili mie stelle m’han negato

con la nascita, per mostrarmi degna

della mia grande fortuna.

 

BERTRAMO -

Su, su,

lasciamo stare adesso. Ho molta fretta.

Tornate presto a casa. Arrivederci.

 

ELENA -

Di grazia, perdonate…

 

BERTRAMO -

Che c’è ancora?

 

ELENA -

Io non son degna di tanta ricchezza,

non oso dir nemmeno che sia mia…

però lo è… ma come un ladro timido,

mi struggo dalla voglia di rubare

sol quello che per legge m’appartiene.

 

BERTRAMO -

Che cosa, per esempio?

 

ELENA -

Qualcosa, o anche meno… nulla, nulla.

Non voglio dirvi quello che desidero,

mio signore… ma sì, sì, ve lo dico:

solo estranei e nemici, mio signore,

si separano senza darsi un bacio…

 

BERTRAMO -

Su, su, prego, non state ad indugiare,

mettetevi a cavallo.

 

ELENA -

Come volete voi, mio buon signore.

Dove sono i miei servi?

(A Parolles)

Addio, Monsieur.

 

 

(Esce)

 

BERTRAMO -

Va’, va’, vattene a casa,

dove sicuramente io non verrò

fintanto che potrò impugnare spada

ed udire un tamburo. A noi, andiamo.

 

PAROLLES -

Bravamente. Coraggio!

 

 

(Escono)

 

ATTO TERZO

 

SCENA I - Firenze, sala nel palazzo ducale.

 

Fanfara. Entrano il DUCA DI FIRENZE con scorta e due NOBILI francesi.

 

DUCA -

Così punto per punto avete udito

quali sono le cause essenziali

di questa guerra che già tanto sangue

ha fatto spargere, e che d’altro ha sete.

 

PRIMO NOBILE -

Sacrosanta ci pare la querela

di vostra grazia; nera ed infernale

quella accampata dalla parte avversa.

 

DUCA -

Perciò non è senza grande stupore

da parte nostra apprendere, signori,

che il nostro caro cugino di Francia

di fronte ad una causa tanto giusta

abbia chiuso il suo cuore alla richiesta

da parte nostra di mandarci aiuti.

 

SECONDO NOBILE -

Mio nobile signore,

io, in coscienza, di ragion di stato

non so parlare, se non nella veste

di un qualunque comune cittadino

che sta al di fuori delle procedure

del Consiglio del re

e può configurarsi nella mente

inadeguate o false congetture;

perciò non oso dire quel che penso,

perché mi son trovato troppe volte,

per scarsa conoscenza delle cose,

a indovinare e sbagliare di grosso.

 

DUCA -

Bah, faccia come vuole.

 

PRIMO NOBILE -

Sono certo però che molti giovani

che condividono le nostre idee,

stufi di starsene a poltrire in pace,

accorreranno qui di giorno in giorno

per la voglia di ritemprar le membra

nella guerra.

 

DUCA -

E saranno i benvenuti,

ed avranno da noi tutti gli onori

ch’è in nostra facoltà di conferire.

Voi conoscete già i vostri gradi;

quando se ne faranno di più alti,

saran per voi. Domani tutti in campo.

 

 

(Fanfara. Escono)

 

 

 

SCENA II - Rossiglione, il palazzo del conte.

 

Entrano LA CONTESSA con in mano una lettera e IL LAVA

 

CONTESSA -

È andata proprio come io volevo,

solo ch’egli non torna qui con lei.

 

LAVA -

A dir vero, il mio giovane signore

m’è apparso assai d’umore malinconico.

 

CONTESSA -

Da quali segni lo avresti capito?

 

LAVA -

Bah, sapete: si guarda gli stivali,

e canticchia; s’aggiusta la risvolta,

e canticchia; ti chiede qualche cosa,

e poi canticchia; si stuzzica i denti

e canticchia. Ho conosciuto un tale

che aveva questo umore malinconico

e s’è venduto un fastoso maniero

per una canzonetta.

 

CONTESSA -

Vediamo un poco che cosa mi scrive

e quando conta di tornare a casa.

 

 

(Apre con qualche difficoltà la lettera)

 

LAVA -

(A parte)([53])

Da quando son tornato da Parigi,

Isbel non mi va più.

I nostri baccalà e le nostre Isbel

qui di campagna, non son proprio niente

appetto ai baccalà ed alle Isbel

là della corte. Al mio bravo Cupido

è saltato il cervello, ora le donne

comincio veramente a vagheggiarle

come un vecchio il denaro: alla svogliata.

 

CONTESSA -

(Ha aperto la lettera e s’accinge a leggere)

Che dice qui?

 

LAVA -

Dice quello che dice!

 

 

(Esce)

 

CONTESSA -

(Legge)

“V’ho mandato una nuora:

“ha risanato il re,

“e rovinato me.

“L’ho sposata, ma non l’ho posseduta,

“e giuro che il mio “no” sarà per sempre.

“Vi diranno che son fuggito via:

“sappiatelo da me

“prima che ve ne giunga altrui notizia.

“Se per me ci sarà abbastanza spazio

“nel vasto mondo, mi terrò lontano

“più che potrò. Con tutto il mio rispetto,

“Bertramo, vostro sfortunato figlio”.

 

 

Non è per niente bello,

precipitoso e sbrigliato ragazzo,

fuggir così dai favori d’un re

tanto buono, attirando sul tuo capo

il suo sdegno per aver tu sdegnato

una fanciulla fin troppo virtuosa

per il rispetto d’un imperatore.

 

 

Rientra IL LAVA

 

LAVA -

Signora, brutte notizie in arrivo:

due soldati e la mia giovane dama.

 

CONTESSA -

Che c’è?

 

LAVA -

Però c’è qualcosa di buono

nelle notizie, qualcosa di buono:

che vostro figlio non sarà ammazzato

così presto com’io avrei creduto.

 

CONTESSA -

E perché dovrebb’essere ammazzato?

 

LAVA -

È quel che dico anch’io,

dato che, come dicono, è scappato.

Il pericolo sta nel farsi avanti,

perché è così che si perdono gli uomini,

anche s’è quello il modo di far figli.([54])

Eccoli, ne saprete più da loro.

Per parte mia, tutto quello che so

è che è scappato e basta.

 

 

(Esce)

 

 

Entra ELENA con due NOBILI francesi

 

PRIMO NOBILE -

Che Dio vi salvi, amabile signora.

 

ELENA -

Madama, il mio signore

se n’è andato, per sempre.

 

SECONDO NOBILE -

Oh, non così!

 

CONTESSA -

(A Elena)

Abbi pazienza.

(Ai nobili)

Signori, vi prego…

ho dovuto sentire in vita mia

troppe fitte di gioia e di dolore,

perché al sopravvenir dell’una o l’altro

non mi comporti più da vera donna.

Dov’è mio figlio, prego?

 

SECONDO NOBILE -

Signora, è andato a mettersi al servizio,

in Italia, del Duca di Firenze;

l’incontrammo ch’era diretto là,

donde veniamo e dove torneremo

dopo sbrigati alcuni affari a corte.

 

ELENA -

(Leggendo la lettera)

“Quando tu sarai in grado

“d’infilare al mio dito quell’anello

“che mai più dovrò togliere,

“e di mostrarmi un figlio da te nato

“e da me generato,

“solo allora potrai dirmi tuo sposo;

“ma io scrivendo “allora” scrivo “mai”.

È una condanna a morte.

 

CONTESSA -

Avete voi recato questa lettera,

signori?

 

PRIMO NOBILE -

Sì, signora,

e sentendone ora il contenuto,

ci duole molto che così sia stato.

 

CONTESSA -

(A Elena)

Ti prego, cara, cerca di far cuore;

se ti accaparri tu tutta la pena,

me ne rubi metà. Era mio figlio.

Ma ne cancello il nome dal mio sangue,

e adesso tu sei l’unica mia figlia.

(Ai nobili)

A Firenze è diretto?

 

PRIMO NOBILE -

Sì, signora.

 

CONTESSA -

Per arruolarsi?

 

SECONDO NOBILE -

Tale è il suo proposito;

e il Duca gli conferirà, credetemi,

ogni onore che a lui si converrà.

 

CONTESSA -

Voi tornate in Italia?

 

PRIMO NOBILE -

Sì, signora,

al più presto che ci sarà possibile.

 

ELENA -

(Seguitando a leggere la lettera)

“E fino a quando non avrò più moglie,

“in Francia non avrò nulla di mio.”

Quale amarezza!

 

CONTESSA -

C’è scritto così?

 

ELENA -

Proprio così, signora, letterale.

 

PRIMO NOBILE -

Questa è forse soltanto avventatezza

della sua mano, alla quale il suo cuore

non consentiva.

 

CONTESSA -

Non ha nulla in Francia,

fintanto che non avrà più una moglie!

Qui non c’è nulla che sia troppo buono

per lui tranne costei, che per marito

meriterebbe un nobile signore,

cui venti ragazzacci come lui

potrebbero far solo da valletti,

chiamando lei, ad ogni ora, “padrona”.

E, ditemi, chi andava insieme lui?

 

PRIMO NOBILE -

Un suo servo ed un certo gentiluomo

che mi pare d’aver visto altre volte.

 

CONTESSA -

Parolles?

 

PRIMO NOBILE -

Sì, buona signora, lui.

 

CONTESSA -

Un individuo molto scostumato,

e pieno di perfidia.

Mio figlio sotto la sua influenza

corrompe la bennata sua natura.

 

PRIMO NOBILE -

Certo, gentil signora,

il personaggio ha molto di quel troppo

che gli conviene per trarne profitto.([55])

 

CONTESSA -

Benvenuti, comunque, miei signori.

Vi prego, quando vedrete mio figlio,

ditegli che la spada

non potrà riacquistargli quell’onore

ch’egli perde così; molte altre cose

gli dirò per iscritto in una lettera

che pregherò voi stessi di recargli.

 

SECONDO NOBILE -

Disponete di noi, signora, in questo

e in tutto quanto vi piaccia affidarci.

 

CONTESSA -

Ma solo a patto che mi sia possibile

ricambiarvi le vostre cortesie.

Seguitemi, vi prego.

 

 

(Escono la contessa e i due nobili)

 

ELENA -

E fino a quando non avrò più moglie,

non avrò nulla in Francia”…

“Finché non avrò più una moglie in Francia…”

Non avrai più una moglie, Rossiglione,

nessuna moglie in Francia, sta’ tranquillo,

così potrai riavere tutto il tuo!

Son io dunque, mio povero signore,

che ti costringo fuor dal tuo paese,

che espongo le tue membra delicate

agli eventi rischiosi d’una guerra

che nessuno risparmia?

Son io la causa che ti fa fuggire

la vita ed i piaceri della corte

dov’eri sol bersaglio di begli occhi,

per renderti bersaglio di moschetti

dalle bocche fumanti?

O voi, violenti plumbei messaggeri,

che cavalcate i corsieri del fuoco,

deviate la vostra traiettoria,

colpite solo l’aria invulnerabile

che canta quando voi la trapassate,

 

e lasciate intoccato il mio signore!

Chiunque sparerà contro di lui,

son io la responsabile

d’aver fatto di lui il suo bersaglio;

chiunque lo potrà colpire in petto,

son io la sciagurata

che lo costringe lì; e se ad ucciderlo

non sarò io, sarò io sempre stata

la causa di sua morte.

Quanto meglio per me sarebbe stato

affrontare un leone

ruggente sotto i morsi della fame;

quanto meglio per me,

se tutte le disgrazie di natura

fossero riversate sul mio capo!…

No, Rossiglione, no,

torna a casa da lì, dove l’onore

può conquistarsi tanto una ferita,

quanto perdere tutto. Me ne andrò.

Se ciò che ti costringe a star lontano

è soltanto la mia presenza qui,

come poss’io restare, a questo prezzo?

No, no, spirasse pur su questa casa

aura di paradiso e fossero angeli

tutti i suoi servitori! Me ne andrò,

sì che voci pietose, a tuo conforto,

possano riportare ai tuoi orecchi

 

il lieto annuncio della mia scomparsa.

Cala, notte; finisci presto, giorno.

Al calar delle tenebre, furtiva

nel buio, come una povera ladra,

Elena si dileguerà.

 

 

(Esce)

 

 

 

SCENA III - Firenze, davanti al palazzo ducale.

 

Trombe. Entrano il DUCA DI FIRENZE, BERTRAMO, PAROLLES

e soldati con tamburi e bandiere

 

DUCA -

Ti abbiamo nominato generale

della nostra cavalleria, Bertramo,

e, pieni di speranza,

noi riponiamo in te il nostro affetto

e la nostra fiducia

sulle promesse della tua fortuna.

 

BERTRAMO -

Troppo pesante compito, signore,

per le mie forze, ma ci adopreremo

ad assolverlo per il vostro onore

fino all’estremo limite del rischio.

 

DUCA -

Avanti dunque! E possa la fortuna

giocare sul tuo elmo prosperoso

come la tua propiziatoria amante.

 

BERTRAMO -

Eccelso Marte, io entro nei tuoi ranghi

oggi stesso, e ti chiedo solo questo:

rendi il mio braccio pari ai miei pensieri,

ed io mi mostrerò del tuo tamburo

amante e dell’amore spregiatore.

 

 

(Fanfara. Escono tutti)

 

 

 

SCENA IV - Rossiglione, il palazzo del conte.

 

Entrano la CONTESSA e RINALDO; questi ha in mano una lettera.

 

CONTESSA -

Ahimè, e ti sei prestato suo latore

di questa lettera? Non hai pensato

che avrebbe fatto quello ch’ella ha fatto

dandoti quella lettera per me?

Leggimela di nuovo.

 

RINALDO -

(Legge)

Mi faccio pellegrina di San Giacomo,

“colà mi reco. Un amore ambizioso

“ha sì peccato in me, ch’io ora scalza

“calpesto il freddo suolo ad emendare

“con sacri voti questo mio errore.

“Scrivete ora, scrivete a vostro figlio,

“mio diletto padrone, che ritorni

“dal sangue e dai perigli della guerra.

“E quando sarà a casa, beneditelo,

“mentr’io, lontana, in fervoroso zelo

“invocherò in preghiera il nome suo.

“Chiedete voi per me il suo perdono

“per i duri disagi cui s’è esposto,

“ch’io sola fui, sua sdegnosa Giunone,

“a spingerlo lontano dalla corte

“per accamparsi tra nemiche schiere,

“là dove rischio e morte

“azzannano i calcagni del valore.

“Troppo egli è buono e bello

“per la morte e per me, che morte abbraccio

“per ridonargli intera libertà.”

 

CONTESSA -

Ah, quali acuti spilli pel mio cuore

anche le sue più tenere parole!

Rinaldo, mai sei stato sì maldestro

come adesso, a lasciarla andar così!

Se le avessi potuto parlare io,

sarei ben riuscita a dissuaderla

dal porre in atto simili propositi;

com’ella invece ha fatto.

 

RINALDO -

Signora, perdonatemi.

Se v’avessi potuto consegnare

questa sua lettera di prima sera,

forse c’era ancor tempo per raggiungerla;

però anche così, da quanto scrive,

sarebbe stato inutile inseguirla.

 

CONTESSA -

Quale angelo mai benedirà

questo indegno marito?

 

Non gli potrà venire nessun bene,

a meno che le preghiere di lei,

che son sì accette al cielo, non riescano

a proteggerlo dalla giusta collera

della superna giustizia.

Scrivi, scrivi, Rinaldo, a quel marito

davvero indegno d’una tale moglie,

ed abbia ogni parola che tu scrivi

tutto il peso dei meriti di lei,

ch’ei valuta con troppa leggerezza.

Esprimigli la mia immensa ambascia,

anche se in lui non avrà molta presa.

Spedisci il più veloce dei corrieri.

Forse quando saprà che se n’è andata,

farà ritorno a casa;

e io spero che anch’ella, nell’apprenderlo,

ritornerà al più presto, qui sospinta

dal suo amore sincero.

Quale di loro due mi sia più caro

non so. Procura tu questo corriere.

Ho un grande peso al cuore,

che la debole età mia non sopporta;

il dolore vorrebbe solo lacrime,

ma l’ambascia m’impone di parlare.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA V - Firenze, davanti alle mura della città.

 

Entrano l’anziana VEDOVA fiorentina con la figlia DIANA,

le amiche VIOLENTA e MARIANA e altri cittadini.

Squillo di tromba in lontananza.

 

VEDOVA -

Sbrighiamoci.