Era garzone

a Parigi da un certo ciabattino,

finché non l’hanno cacciato a pedate

per aver messo incinta una ragazza,

una povera idiota dell’ospizio

del comune,([71]) una povera innocente

muta, che fu impotente a dirgli “no”!

 

 

(Il primo nobile furibondo alza la mano per colpirlo,

ma Bertramo lo ferma)

 

BERTRAMO -

No, con licenza, fermo con le mani….

Tanto so già che non passerà molto

gli arriverà una tegola in testa.

 

PRIMO SOLDATO -

Allora dunque questo capitano

è in campo, o no, col Duca di Firenze?

 

PAROLLES -

Sì, c’è quel pidocchioso, ch’io ne sappia.

 

PRIMO NOBILE -

(A Bertramo che lo guarda sbalordito)

Beh, adesso non guardatemi così.

Fra poco sentiremo anche di voi.

 

PRIMO SOLDATO -

(A Parolles)

Di che credito gode presso il Duca?

 

PAROLLES -

Tutto quello che il Duca sa di lui

è ch’egli è solo un mediocre ufficiale

in forza al mio reparto; e l’altro giorno

m’ha scritto di buttarlo fuor dai ranghi.

Credo d’aver in tasca la sua lettera.

 

PRIMO SOLDATO -

Eh, perbacco, cerchiamola senz’altro.

 

 

(Il primo soldato comincia a frugare nelle tasche di Parolles, ma non trova niente)

 

PAROLLES -

Sono mortificato…

Non so com’è: se non l’ho qui con me,

sarà rimasta insieme all’altre lettere

del Duca che conservo alla mia tenda.

 

 

(Il primo soldato, continuando a frugare,

trova un foglio)

 

PRIMO SOLDATO -

Eccola; qui c’è un foglio. Devo leggerlo?

 

PAROLLES -

Ma non sono sicuro che sia quella.

 

BERTRAMO -

(A parte, al primo nobile)

Il nostro interprete è davvero in gamba.

 

PRIMO SOLDATO -

(Legge il foglio)

“Diana, il conte è uno sciocco, pieno d’oro…”

 

PAROLLES -

Oh, no, non è lettera del Duca,

quella, signore, è solo un mio consiglio

a una brava ragazza di Firenze,

certa Diana, perché si tenga in guardia

dalle lusinghe d’un certo Bertramo,

conte di Rossiglione, un ragazzotto

scioccherello e vanesio, sempre in fregola.

Vi prego, riponetemela in tasca.

 

PRIMO SOLDATO -

Prima, con tua licenza, voglio leggerla.

 

PAROLLES -

L’ho scritta, v’assicuro, quella lettera

intenzionato a rendere un servizio

più che onesto alla povera ragazza;

perché sapevo bene, conoscendolo,

quale pericoloso donnaiolo

fosse il giovane conte Rossiglione:

un lussurioso, una vera balena

per la verginità, divoratrice

di tutti i pesciolini in cui s’imbatte.

 

BERTRAMO -

Maledetta canaglia doppiafaccia!

 

PRIMO SOLDATO -

(Legge)

“Quando ti giura amore,

“fagli sborsare del denaro e prendilo,

“ché lui consuma, ma non paga il conto.

“Un gioco ben portato

“è a metà guadagnato. Farai bene,

“se avrai in precedenza contrattato.

“A cose fatte, non paga arretrato.

“Prendili prima, Diana, e sappi questo

“che ti consiglia un soldato modesto:

“ci s’infrasca con uomini maturi,

“non si baciano uomini futuri.

“E dammi retta: il conte è un bel gaglioffo,

“che paga avanti, ma non dov’è in debito.

“Sono, come all’orecchio t’ho giurato,

“il tuo PAROLLES, parola di soldato”.

 

BERTRAMO -

Costui, parola mia,

dovrà passare sotto le frustate

di tutti gli uomini del mio reparto

con questi versi appiccicati in fronte!

 

PRIMO NOBILE -

Ecco, questo è il devoto vostro amico,

il vostro poliglotta,

l’armipotente guerriero, signore!

 

BERTRAMO -

Se c’è cosa ch’io non sopporto al mondo,

è il gatto, e questi per me adesso è un gatto.([72])

 

PRIMO SOLDATO -

(A Parolles)

Dalla faccia che fa il mio generale

mi par d’intendere, caro messere,

che ci sarà procurato il piacere

di vederti impiccato.

 

PAROLLES -

Oh, non sia mai!

Non ch’io abbia paura di morire,

ma, dato che ho commesso assai peccati,

vorrei passare il resto dei miei giorni

solo a fare mea culpa.

Oh, lasciatemi vivere, signore,

in prigione, costretto in ceppi, ovunque,

purché vivo.

 

PRIMO SOLDATO -

Vedremo cosa fare,

se dirai tutto senza reticenze.

Torniamo a questo capitan Dumain:

tu hai risposto già circa la stima

che ha il Duca di lui e del suo valore;

ma che puoi dire sulla sua onestà?

 

PAROLLES -

Che ruberebbe un uovo in un convento.

Che in quanto a stupri e violenze carnali

non ha davvero da invidiare a Nesso.([73])

Capace di mentire, signor mio,

con tanta disinvolta facciatosta

da far passare per assurdo il vero.

Sua massima virtù l’ubriachezza,

per via che s’ubriaca come un porco,

e solo quando dorme non fa danno,

salvo che alle sue povere lenzuola;

ma, poiché tutti sanno del suo vizio,

lo mettono a dormire sulla paglia.

Sulla sua onestà,

ho ben poc’altro da dire, signore,

tranne ch’è un individuo

che ha tutto ciò che non dovrebbe avere

un uomo onesto, mentre non ha nulla

di tutto quello che fa onesto un uomo.

 

PRIMO NOBILE -

(Sempre sottovoce a parte a Bertramo)

Costui comincia ad essermi simpatico.

 

BERTRAMO -

Per che cosa: per questa descrizione

della sua onestà? Gli venga un cànchero!

Per me somiglia sempre più ad un gatto.

 

PRIMO SOLDATO -

(A Parolles)

E sulla sua perizia militare

che cosa mi puoi dire?

 

PAROLLES -

Eh, so solo che ha fatto il tamburino

per una compagnia di attori inglesi,([74])

ma della sua perizia militare

altro non so, se non che in quel paese

ebbe l’onore di far l’ufficiale

in un posto chiamato Mile-end,([75])

dove addestrava a mettersi per due

le guardie di città. Vorrei anch’io

rendergli tutto l’onore che posso,

ma neppure di questo son sicuro.

 

PRIMO NOBILE -

Più ribaldo della ribalderia!

A tal punto, che quasi si riscatta

per la sua straordinarietà!

 

BERTRAMO -

Peste lo colga! Sempre un gatto è!

 

PRIMO SOLDATO -

(A Parolles)

Se le sue qualità, come tu dici,

sono roba così a buon mercato,

è inutile allora domandarti

se si lasci corrompere dall’oro

fino alla diserzione e al tradimento.

 

PAROLLES -

Per un quarto di scudo, quello lì,

si venderebbe a titolo perpetuo

il sacro feudo della sua salvezza

con diritto di ereditarietà

a se stesso, escludendone gli eredi.

 

PRIMO SOLDATO -

E quanto all’altro capitan Dumain,

il fratello, che cosa ci puoi dire?

 

SECONDO NOBILE -

Che! Gli chiede di me?

 

PRIMO SOLDATO -

Che tipo è?

 

PAROLLES -

Un altro corvo della stessa cova.

Non di grande statura come il primo

in fatto di onestà, ma assai più grande

quanto a cialtroneria in generale.

Supera suo fratello per viltà,

ch’è tutto dire, perché suo fratello

in questo è ritenuto un gran campione.

Se c’è una ritirata, nella fuga

supera pure l’ultimo lacchè;

e se c’è un’avanzata,

si fa venire i crampi alle calcagna.

 

PRIMO SOLDATO -

Lo tradiresti il Duca di Firenze

se ti promettono salva la vita?

 

PAROLLES -

Càspita! E anche il comandante in capo

dei suoi squadroni di cavalleria,

conte di Rossiglione!

 

PRIMO SOLDATO -

Vado a dir due parole al generale

per conoscere quello che decide.

(Fa finta di allontanarsi.

Parolles è sempre incappucciato)

 

PAROLLES -

E così non dovrò più stamburare.([76])

Vadano al diavolo tutti i tamburi.

Solo per farmi bello col tamburo,

ed ingannare l’immaginazione

di quel viziato ragazzaccio, il conte,

mi son cacciato in questo ginepraio!

Ma chi poteva mai immaginare

un’imboscata di truppe nemiche

proprio là dove m’hanno catturato?

 

PRIMO SOLDATO -

Purtroppo, amico, non c’è alcun rimedio:

devi morire. Dice il generale

che uno che sì proditoriamente

ha rivelato, come hai fatto tu,

tanti segreti del suo proprio esercito,

e detto male, senza alcun ritegno,

di personaggi di sì alta stima,

non serve, vivo, a nessun fine onesto.

Perciò non c’è che fare: morirai.

A te, carnefice, mozzagli il capo.

 

PAROLLES -

Oh, Dio Signore, lasciatemi vivere!

O, s’io devo morire,

lasciate almeno ch’io possa vederla

la mia morte!

 

PRIMO SOLDATO -

Sì, questo t’è concesso.

 

 

(Gli tolgono il cappuccio con la benda)

 

 

Di’ pure addio a tutti i tuoi amici.

 

BERTRAMO -

Buongiorno a te, nobile capitano.

 

PRIMO NOBILE -

Dio vi dia bene, capitan Parolles.

 

SECONDO NOBILE -

Che Dio vi salvi, nobil capitano.

 

PRIMO NOBILE -

Capitano, io parto per la Francia;

non volete mandare per mio mezzo

un salutino al mio monsieur Lafeu?

 

SECONDO NOBILE -

Buon capitano, mi volete dare

una copia di quel bel poemetto([77])

che avete scritto a Diana

con gli elogi del conte Rossiglione?

S’io non fossi quel fiore di vigliacco

che dite, me lo prenderei di forza.

Comunque, state bene.

 

 

(Escono Bertramo e i due nobili francesi)

 

PRIMO SOLDATO -

Capitano, sei tutto una rovina…

tutto, tranne la sciarpa

che serba intatto il suo superbo nodo.

 

PAROLLES -

Chi non è rovinato da un complotto?

 

PRIMO SOLDATO -

Se tu potessi scoprire un paese

non d’altri popolato che di donne

coperte di vergogna come te,

ci potresti fondare egregiamente

la nazione della spudoratezza.

Statti bene. Anch’io parto per la Francia.

Si parlerà tanto di te, lassù.

 

 

(Esce con gli altri soldati)

 

PAROLLES -

In fondo, posso ringraziare il cielo.

È andata bene: avessi un cuore grande

mi scoppierebbe dalla contentezza.

Non sarò più, magari, un capitano;

ma potrò ben mangiar, bere e dormire

comodamente come un capitano.

È l’esser quel che sono a farmi vivere.

Chi sa di essere un millantatore,

stia bene un guardia, ché giunge il momento

che farà la figura del somaro.

Arrugginisci, spada;

spallidite, rossori; e tu, Parolles,

vivi sicuro nella tua vergogna.

Gli altri t’hanno beffato?

E tu vivi di beffe e fa’ fortuna!

Il mondo è largo, ci son mezzi e posto

per tutti. Io, Parolles, li troverò.

 

 

(Esce)

 

 

 

SCENA IV - Firenze, in casa della vedova.

 

Entrano ELENA, la VEDOVA e DIANA

 

ELENA -

Per convincervi che non v’ho fatto torto,

mi sarà ben garante un personaggio

tra i più grandi della cristianità;

perché avanti a lui io dovrò andare,

a inginocchiarmi ai piedi del suo trono,

per portare a buon esito il mio piano.

Gli ho reso, tempo fa, un gran servizio,

a lui più caro quasi della vita

e tale da destar la gratitudine

anche nel cuore di pietra d’un Tartaro.

So che Sua grazia si trova a Marsiglia,

dove mi sono procurata già

conveniente maniera di recarmi.

Voi dovete sapere

ch’io son creduta morta. Mio marito,

sciolto l’esercito, ritorna a casa,

dove, il cielo aiutando,

e il re mio buon signore permettendo,

noi giungeremo del tutto inattese.

 

VEDOVA -

Mia nobile signora,

mai servo accolse con maggior piacere

di noi due la fiducia in lui riposta.

 

ELENA -

Né voi, signora, aveste mai amica

più di me impegnata fedelmente

a compensar la vostra devozione.

Sicuramente il cielo m’ha creata

perché fossi datrice di una dote

a vostra figlia, e ha destinato lei

a strumento ed aiuto suo e mio

perché io ritrovassi mio marito.

Però, che strane creature gli uomini,

che riescono a fare un sì dolce uso

di ciò che aborrono, quando accecati

da sconci ed ingannevoli pensieri

insozzano la notte.

La lussuria riesce a vezzeggiare

una cosa aborrita,

scambiandola per quello che non è.

Ma di questo, più tardi.

Nel frattempo, voi, Diana,

seguendo bene le mie istruzioni,

dovrete ancor soffrire un po’ per me.

 

DIANA -

Se alle vostre istruzioni, mia signora,

non s’accompagnano morte o disdoro,

io son pronta a soffrir quel che volete.

 

ELENA -

Ancora, sì, vi prego;

ma per noi verrà con quell’“ancora”

l’estate, quando avran le rose petali

oltre alle spine, e saran profumate

quanto pungenti. Ma dobbiamo andare;

la carrozza ci aspetta e il tempo stringe.

Tutto è bene quel che finisce bene.([78])

Il tempo ha sempre coronato l’opera.

E qual che sia la via,

la fine premia sempre la virtù.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA V - Rossiglione, il palazzo del conte.

 

Entrano la CONTESSA, LAFEU e IL LAVA

 

LAFEU -

No, no, a fuorviare vostro figlio

è stato quel messere in taffettà,

quella canaglia color zafferano

capace di ridurre alla sua tinta

tutta la gioventù d’una nazione

ancor malcotta e non lievitata.

Vostra nuora sarebbe ancora in vita

e vostro figlio sarebbe qui a casa,

sicuramente in grazia più del re

che di quel calabrone codarossa.

 

CONTESSA -

Ah, non l’avessi conosciuto mai!

È stato lui a causar la morte

della più illibata gentildonna

della cui creazione la natura

poté mai compiacersi con se stessa.

Foss’ella stata carne di mia carne,

e mi fosse costata a partorirla

il più grande travaglio di una madre

io non le avrei voluto

un più profondo e radicato affetto.

 

LAFEU -

Era proprio una degna gentildonna.

Un’erba come quella

non la si trova tra mille insalate.

 

LAVA -

Davvero, era la dolce maggiorana

nell’insalata, o piuttosto la ruta,

che è l’erba della grazia.

 

LAFEU -

Ma queste non son erbe da insalata,

manigoldo, son solo erbe aromatiche.

 

LAVA -

Io d’erbe non m’intendo, monsignore,

non sono il gran Nabuccodonosor.([79])

 

LAFEU -

Chi sei allora, o chi credi di essere:

un furfante o un buffone?

 

LAVA -

L’uno e l’altro, vossignoria: buffone

quando ho da fare il servizio a una donna;

e furfante per il di lei marito.

 

LAFEU -

Che significa questa distinzione?

 

LAVA -

Che froderei il marito della moglie,

e le farei il servizio al posto suo.

 

LAFEU -

Così quello si trova al suo servizio

un furfante. E la moglie?

 

LAVA -

Alla moglie darei, per divertirla

e renderle servizio, la mia mazza.([80])

 

LAFEU -

Sei furfante e buffone, tutt’e due:

non posso a meno di dartene atto.

 

LAVA -

Sempre pronto a servirvi…

 

LAFEU -

No, no, no!

 

LAVA -

Allora, se non voi,

posso sempre servire, monsignore,

un gran principe, grande come voi.

 

LAFEU -

E chi è, un francese?

 

LAVA -

A dir la verità, il nome è inglese,

ma in Francia la sua faccia è più infuocata

che in Inghilterra.

 

LAFEU -

E che principe è questo?

 

LAVA -

È il “Principe Nero”, monsignore,

principe delle tenebre anche detto,

alias il diavolo.([81])

 

LAFEU -

Basta così.

Eccoti la mia borsa, te la lascio;

ma non per suggerirti di tradire

quel tuo padrone. Seguita a servirlo.

 

LAVA -

Io son uomo di bosco, monsignore,

ed i falò mi son sempre piaciuti;

e il padrone di cui testé parlavo

tiene acceso in eterno un grande fuoco.

Di sicuro egli è il principe del mondo;

ma la sua principesca nobiltà

rimanga alla sua corte; la mia casa

la preferisco con la porta stretta,

tanto stretta da non poterci entrare

i grandi; ci potranno forse entrare

quei pochi in mezzo a loro che si umiliano,

ma la gran maggioranza

 

son troppo freddolosi e delicati,

e sceglieranno il cammino fiorito

che mena alla gran porta e al gran fuoco.([82])

 

LAFEU -

 

Vattene, va’, tu cominci a stufarmi

con i tuoi lazzi; e te lo dico prima,

perché non voglio arrabbiarmi con te.

Va’ per i fatti tuoi. Bada soltanto

che i miei cavalli siano ben strigliati

e senza trucchi.([83])

 

LAVA -

Se facessi trucchi,

con quei cavalli, sarebbero trucchi

sempre “imbroccati”, ché le vostre rozze

sono brocchi per legge di natura.([84])

 

 

(Esce)

 

LAFEU -

Un furfantaccio, astuto e malizioso.

 

CONTESSA -

Proprio così. Il mio povero marito

ci si spassava molto; ed è per lui

che seguito a tenerlo qui con me;

e questo lui lo sa e ne approfitta

per mandare la lingua a briglia sciolta;

ed infatti è sfrenato in lungo e in largo,

come un cavallo, e corre dove vuole.

 

LAFEU -

Ma è simpatico, male non ci sta.

Per riprendere il filo del discorso,

stavo dunque per dirvi, mia signora,

che quand’ebbi notizia della morte

della buona signora vostra nuora

e che il mio signore vostro figlio

era in viaggio per ritornare a casa,

ho convinto il sovrano mio padrone

a parlargli in favore di mia figlia;

cosa che sua maestà,

nella sua nobile delicatezza

ha ricordato di avere proposto

lui stesso al tempo che il vostro figliolo

ed ella erano in minore età.

Ho avuto da Sua altezza la promessa

che farà questo passo;

e potrebb’essere il modo migliore

per cancellare il suo risentimento

contro il conte Bertramo.

Che ne direbbe vostra signoria?

 

CONTESSA -

Che ne son ben felice, monsignore.

 

LAFEU -

Sua maestà è in viaggio per Marsiglia

del tutto risanato e vigoroso

come a trent’anni. Sarà qui domani,

se non m’ha detto il falso la persona

che di rado mi diè false notizie.

 

CONTESSA -

Mi riempie di gioia la speranza

di poterlo veder prima ch’io muoia.

Anche mio figlio sarà qui stasera,

secondo che m’annuncia una sua lettera.

Debbo pregare vostra signoria

di restare con me fino a domani

per assistere a questo loro incontro.

 

LAFEU -

Stavo appunto chiedendomi, signora,

come pregarvi di questo favore

senza potervi sembrare indiscreto.

 

CONTESSA -

Non avevate che a invocar per voi

il privilegio della nobiltà.

 

LAFEU -

Signora, me ne son fin troppo valso,

ma vedo, grazie a Dio, ch’è ancora valido.

 

 

Rientra IL LAVA

 

LAVA -

Madama, sta arrivando vostro figlio

con un cerotto di velluto in faccia;

se ci sia sotto o no una cicatrice,

lo sa solo il velluto;

ma è una bella toppa di velluto:

la sua guancia sinistra,

è una guancia con doppio pelo e mezzo,

mentre la guancia destra è solo pelle.([85])

 

LAFEU -

Una ferita nobilmente presa,

voglio dire una nobile ferita

è una livrea d’onore;

tale sarà probabilmente quella.

 

LAVA -

Già, ma ci sono toppe di velluto

che coprono altre piaghe.([86])

 

LAFEU -

Signora, andiamo incontro a vostro figlio.

Ho proprio una gran voglia di parlare

con questo giovin nobile soldato.

 

LAVA -

Eh, oltre a lui ce n’è una dozzina

che sfoggiano eleganti copricapi

e certe cortesissime lor piume

che fanno riverenze a destra e a manca.

 

 

(Escono)

 

ATTO QUINTO

 

SCENA I - Marsiglia, una via.

 

Entrano ELENA, la VEDOVA, DIANA e due accompagnatori.

 

ELENA -

Tutto questo viaggiare giorno e notte

vi deve aver mandato giù di spirito;

ma non se ne poteva fare a meno.

Siate però sicure di una cosa:

che facendo tutt’uno giorno e notte

per me e logorando al mio servizio

le vostre membra così delicate,

siete tanto cresciute di valore

nel conto della mia riconoscenza

che nulla vi potrà più cancellare.

 

 

Entra un GENTILUOMO, falconiere reale

 

 

Giusto in punto! Quest’uomo può aiutarmi

a procurarmi udienza presso il re,

se vorrà usare la sua autorità.

Dio vi salvi, signore!

 

GENTILUOMO -

E così voi.

 

ELENA -

Signore, il vostro viso non mi è nuovo;

vi ho visto già alla corte di Francia.

 

GENTILUOMO -

Ci sono stato, infatti, qualche volta.

 

ELENA -

Credo, signore, che non sia scemata

la buona fama d’uomo generoso

di cui godete; per questa ragione,

spinta da assai scabrose circostanze

che m’inducono a mettere da parte

i complimenti, vorrei trar profitto

dalle vostre virtù per un favore

di cui vi sarei grata in sempiterno.

 

GENTILUOMO -

Che volete ch’io faccia?

 

ELENA -

Che vi degnaste consegnare al re

quest’umilissima mia petizione

e che usaste la vostra autorità

per farmi ammettere alla sua presenza.

 

GENTILUOMO -

Ma il re non è più qui.

 

ELENA -

Ah, no?

 

GENTILUOMO -

No, no;

il re è partito da qui questa notte,

e più speditamente del suo solito.

 

VEDOVA -

Signore Iddio! Tutta fatica inutile!

 

ELENA -

Tutto è bene quel che finisce bene,

anche se sembrano tutte contrarie

le circostanze e inadeguati i mezzi.

(Al gentiluomo)

E, di grazia, signore, dov’è andato?

 

GENTILUOMO -

A Rossiglione, credo; anzi son certo.

E là mi stavo dirigendo anch’io.

 

ELENA -

Allora vi scongiuro, monsignore,

poiché probabilmente lo vedrete

prima di me, vogliate consegnare

nell’auguste sue mani questa lettera.

Non vi procurerà nessun richiamo

da lui, che, anzi, vi ringrazierà

per il disturbo che vi siete preso.

Vi seguirò con la celerità

che i nostri mezzi ci consentiranno.

 

GENTILUOMO -

Lo farò volentieri.

 

ELENA -

E ne riceverete, v’assicuro,

da lui ringraziamenti, e forse più.

(Alle due donne)

Noi dobbiamo rimetterci a cavallo.

Andiamo, andiamo dunque a prepararci.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA II - Rossiglione, cortile interno nel palazzo del duca.

 

Entrano IL LAVA e PAROLLES

 

PAROLLES -

Mio bravo mastro Lava, fa’ il favore,

va’ da monsieur Lafeu da parte mia,

e consegna in sua mano questa lettera.

Tu m’hai già conosciuto, caro amico,

quando avevo maggior dimestichezza

con più freschi vestiti; ma, mio caro,

con me l’umore della dea Fortuna

s’è intorbidato e dalla mia persona

emana il tanfo della sua avversione.

 

LAVA -

Eh, l’avversione della dea Fortuna

dev’essere qualcosa d’assai sporco,

se emana il forte puzzo che voi dite.

Da oggi in poi non mangerò più pesce

fritto dalla Fortuna… Aria, aria!

 

 

(Il Lava fa l’atto di scostarsi e turarsi il naso)

 

PAROLLES -

Ehi, non occorre che ti turi il naso,

amico, sto parlando per metafora.

 

LAVA -

Se la vostra metafora, signore,

o la metafora di qualcun altro

puzza, bisogna che mi turi il naso.

Ti prego, fatti in là.

 

PAROLLES -

Va’, portami, ti prego, questo foglio.

 

LAVA -

Puah!… State alla larga, per favore.

Dovrei portare una carta del cesso

della Fortuna a un nobil gentiluomo…

Eccolo, toh, che arriva di persona.

 

 

Entra LAFEU

 

 

Monsieur Lafeu, qui c’è un escremento

della Fortuna, o meglio del suo gatto,

che non odora di gatto muschiato,

caduto nella fetida peschiera

della sua avversione, nella quale

come dice, s’è tutto inzaccherato.([87])

Vi prego, mio signore, questa carpa

trattatela il meglio che potete;

a me sembra un furfante decaduto,

un’ingegnosa, stupida canaglia.

Con questi confortevoli aggettivi

gli manifesto tutto il mio compianto

per la sua sofferenza,

e lo lascio alla vostra signoria.

 

 

(Esce)

 

PAROLLES -

Sono un uomo, signore,

crudelmente graffiato da Fortuna.

 

LAFEU -

E che vuoi che ci faccia? È troppo tardi

per tagliare le unghie alla Fortuna.

Ma che mascalzonata hai combinato

per farti sgraffignare in questo modo?

È una brava signora la Fortuna,

in fondo, e non permette ai mascalzoni

di prosperare a lungo nel suo regno.

Toh, ecco un cardecue.([88])

(Gli dà la moneta)

Siano i giudici a farti far la pace

con la Fortuna. Ho altro da pensare.

 

PAROLLES -

Una parola sola, vostro onore,

vi prego di ascoltarmi.

 

LAFEU -

Ho capito, tu chiedi un altro soldo.

Eccolo, e tieniti la tua parola.

 

PAROLLES -

Il mio nome è Parolles, mio buon signore.

 

LAFEU -

Allora chiedi più d’una parola…([89])

Per le pene di Cristo, qua la mano!

Come va il tuo tamburo?

 

PAROLLES -

Oh, monsignore,

voi foste il primo a scoprire chi ero.

 

LAFEU -

Ah, sì? Ed anche il primo a ricoprirti…

di vergogna.

 

PAROLLES -

Sta quindi a voi, signore,

in qualche modo rimettermi in grazia,

avendomi portato allo scoperto.

 

LAFEU -

Eh, no, gaglioffo! Tu mi vuoi far fare

sia la parte di Dio che del demonio,

l’uno che ti rimette nella grazia,

l’altro che te ne scaccia.

 

 

(Trombe da dentro)

 

 

Arriva il re,

lo riconosco dalla sua fanfara.

Compare, fatti vedere più tardi.

Ho parlato di te ancor iersera.

Anche se sei un pazzo e una canaglia,

ci sarà da mangiare anche per te.

Su, seguimi.

 

PAROLLES -

Ringrazio Dio per voi.

 

 

(Escono)

 

 

 

SCENA III - La stessa.

 

Trombe. Entrano il RE, la CONTESSA, LAFEU, nobili, cavalieri e seguito

 

RE -

Con lei abbiamo perduto un gioiello,

e quel che noi valiamo

n’è rimasto di molto impoverito.

Ma a vostro figlio, nella sua follia,

è mancato il cervello per stimare

tanto valore.

 

CONTESSA -

Acqua passata, sire;

vostra altezza lo voglia riguardare

solo come uno sfogo di natura,

una vampata dell’età sua giovane

nella quale olio e fuoco, troppo ardenti

per poter soggiacere alla ragione,

la sopraffanno e bruciano con essa.

 

RE -

Tutto è stato, onorata mia signora,

da me dimenticato e perdonato,

benché sopra di lui fosse già teso

l’arco del mio castigo,

aspettando il momento di colpire.

 

LAFEU -

(Alla contessa)

Io, signora, scusandomi in anticipo,

vi voglio dire questo: vostro figlio

ha fatto grave torto a sua maestà,

a sua madre, a colei ch’era sua sposa,

ma ancor più grave l’ha fatto a se stesso.

Ha perduto una moglie

la cui bellezza abbagliava lo sguardo

degli occhi più esigenti; il cui parlare

incantava chiunque l’ascoltasse;

 

le cui doti di rara perfezione

imponevano ai cuori più restii

di chiamarla umilmente lor padrona.

 

RE -

Lodar ciò ch’è perduto

ne fa più cara al cuor la rimembranza.

Ebbene, via, chiamatelo;

con lui ci siamo ormai riconciliati,

e il rivederci potrà dileguare

l’ultima nube di risentimento.

Non ci chieda perdono: la sostanza

della gravissima sua colpa è spenta,

e noi i suoi tizzoni ancora accesi

vogliamo seppellire in una fossa

più fonda dell’oblio.

Che venga innanzi a me come un estraneo,

non già come un colpevole.

Informatelo ch’è con questo spirito

che lo vediamo.

 

UN GENTILUOMO -

Sarà fatto, sire.

 

 

(Esce)

 

RE -

(A Lafeu)

Che v’ha detto riguardo a vostra figlia?

Gliene avete parlato?

 

LAFEU -

Sì, si rimette tutto a vostra altezza.

 

RE -

Allora questa unione si farà.

Ho appena ricevuto dall’Italia

lettere che ne esaltano la fama.

 

 

Entra BERTRAMO

 

LAFEU -

Mi pare che il suo aspetto lo confermi.

 

RE -

(A Bertramo)

Bertramo, oggi il tuo re

è una giornata fuori di stagione:

vedrai in me ad un tempo sole e grandine

anche se occhieggia, tra le sparse nuvole,

qualche raggio di sole luminoso.

Su, vieni avanti: il bel tempo è tornato.

 

BERTRAMO -

Perdonatemi, amato mio sovrano,

le mie colpe; ne sono assai pentito.

 

RE -

Tutto per bene. Il passato è passato,

non ne parliamo più.

Afferriamo pel ciuffo sulla fronte

il momento che fugge: siamo vecchi

e sui più celeri nostri decreti

l’impercettibile passo del tempo

scivola via furtivo e silenzioso

prima che li possiamo porre in atto.

(Indicando Lafeu)

Ti ricordi, Bertramo,

della figlia di questo gentiluomo?

 

BERTRAMO -

Mirabilmente, sire. Da principio

su lei era caduta la mia scelta,

avanti che il mio cuore

osasse fare di questa mia lingua

un troppo audace araldo di se stesso;([90])

una volta però che la sua immagine

vi s’infisse, trasmessa dal mio occhio,

la lente deformante del Disprezzo,

che distorceva tutti i lineamenti

d’ogni volto, alterandone i colori

oppur considerandoli rubati,

mi dilatò o contrasse quelli suoi

fino a farne un oggetto ripugnante.

Così accadde che ella,

di cui tutti facevano le lodi,

e che io stesso dacché l’ho perduta

ho sempre avuto in cuore, all’improvviso,

divenne agli occhi miei come una polvere

che li accecò.

 

RE -

Una scusa bene espressa.

Il fatto stesso che tu l’abbia amata

riduce di parecchio il tuo gran debito

verso di lei; ma l’amore tardivo,

come un perdono di resipiscenza

recato al condannato giustiziato,

si volge come un amaro rimprovero

contro il grande che tardi l’ha concesso

 

e grida: “Quel che è buono non c’è più!”

Spesso la nostra cieca avventatezza

valuta zero i tesori che abbiamo

e noi non apprezziamo il lor valore

finché non li vediamo nella tomba.

Spesso i nostri disgusti, ingiustamente

per gli altri e soprattutto per noi stessi,

distruggono le più care amicizie,

e poi piangono sulle loro ceneri;

 

e mentre il nostro amore,

ridestato alla luce del mattino,

piange considerando l’accaduto,

l’odio trascorre nella sua vergogna

un pomeriggio di profondo sonno.

Sia questo l’ultimo rintocco funebre

per la dolce Elena; ora dimenticala,

ed invia alla bella Maddalena

il tuo pegno d’amore. Per entrambi

son già accordati i dovuti consensi,

e noi ci fermeremo a Rossiglione

per presenziare alle seconde nozze

del nostro vedovo.

 

CONTESSA -

E tu, buon cielo,

benedicile meglio delle prime!

Altrimenti, o natura, fa’ ch’io muoia

prima che avvenga questa loro unione!

 

LAFEU -

(A Bertramo)

Orbene, figlio mio, in cui innestato([91])

sarà il nome della mia casata,

mandate un pegno d’amore a mia figlia

che valga a riaccenderne lo spirito

e ad indurla a venir subito qui.

 

 

(Bertramo si toglie dal dito un anello e lo dà a Lafeu; questi lo guarda sbalordito, poi:)

 

LAFEU -

Per la mia vecchia barba,

e per ogni suo pelo,

che soave creatura era davvero

quella povera Elena!

Un anello del tutto uguale a questo

vidi certo che ella aveva al dito

l’ultima volta che presi congedo

da lei a corte.

 

BERTRAMO -

Non era lo stesso.

 

RE -

Ch’io lo veda, di grazia; ché il mio occhio,

mentre parlavo, spesso n’era attratto.

(Lafeu gli dà l’anello)

Questo anello era mio,

l’ho dato io ad Elena, e nel darglielo

le dissi che se mai nella sua vita

avesse avuto bisogno di aiuto,

grazie a questo mio pegno, avrebbe in me

trovato sempre chi la soccorreva.

Che arte hai tu usato per sottrarle

la cosa che le dava più d’ogni altra

fiducia e sicurezza nella vita?

 

BERTRAMO -

Qualunque cosa vi piaccia pensare,

mio grazioso sovrano, questo anello

non fu mai suo.

 

CONTESSA -

Sulla mia vita, figlio,

io ti giuro che gliel’ho visto al dito;

e l’aveva più caro della vita.

 

LAFEU -

L’ho vista anch’io con quell’anello al dito,

son sicuro.

 

BERTRAMO -

Signore, v’ingannate;

ella non ha mai visto quest’anello.

Me lo lanciarono da una finestra,

a Firenze, ravvolto in una carta

col nome di colei che lo gettò:

era una nobile dama del luogo

e credeva ch’io fossi senza impegni;([92])

ma poi, quando le dissi del mio stato,

e le feci sapere, onestamente,

che non m’era possibile seguire

l’onorevole corso delle cose

al quale essa aveva dato avvio,

se ne ritrasse, mesta e rassegnata,

ma non volle riprendersi l’anello.

 

RE -

Lo stesso Pluto, che conosce il mezzo

di trasformare in oro un vil metallo

e di moltiplicarlo all’infinito,

non conosce i misteri di natura

com’io conosco bene quest’anello.

Esso fu mio, e da me fu di Elena,

chiunque sia che l’abbia dato a te;

perciò se hai contezza di te stesso,

non hai che a confessare ch’era suo,

e che gliel’hai sottratto con la forza.

Ella giurò davanti a tutti i santi

che mai l’avrebbe sfilato dal dito

se non per darlo a te, nel vostro letto,

nel quale tu non sei mai entrato,

o per mandarlo a noi, e solo a noi,

se si fosse trovata in gran pericolo.

 

BERTRAMO -

Ella non l’ha mai visto. Lo ripeto.

 

RE -

Tu dici il falso, giuro sul mio onore,

e mi fai sorgere certi sospetti

che vorrei tanto scacciar dalla mente.

Perché se mai dovesse risultare

che sei stato con lei così inumano

- non lo sarà, ma tuttavia… non so -

da odiarla a morte, per questo ella è morta;

e niente m’indurrebbe meglio a crederlo

che veder quest’anello in mano a te;

a meno che non fossi stato io stesso

accanto a lei a chiuderle le palpebre…

Conducetelo via!

 

 

(Le guardie s’impadroniscono di Bertramo)

 

 

Comunque vada questa brutta storia,

le prove già raccolte

non possono tacciar d’inconsistenza

i miei dubbi; se mai di leggerezza,

per esser stati troppo pochi. Via!

Vorrò indagar più a fondo in quest’affare.

 

BERTRAMO -

Se mai vi riuscisse di provare

che quest’anello è mai stato di Elena,

dovrete anche provare

che ho condiviso il suo letto a Firenze

dove non è mai stata.

 

 

(Esce sotto scorta)

 

RE -

Brutti pensieri m’avvolgon la mente.

 

 

Entra il GENTILUOMO falconiere

 

GENTILUOMO -

Mio grazioso sovrano,

non so s’io sia da biasimare o meno,

ma devo sottoporre a vostra altezza

la petizione di una fiorentina

che ha tentato per quattro o cinque volte

di venire a portarvela lei stessa

senza mai riuscirvi, suo malgrado.

Mi sono assunto io tale incombenza,

convinto a tanto dalla dolce grazia

con cui la poverina me l’ha chiesto.

So che a quest’ora anch’ella è qui nei pressi,

e aspetta ansiosa una vostra risposta;

ho avuto l’impressione, dal suo volto,

che si tratti di cosa assai importante

e che, secondo che m’ha detto a voce,

brevemente, con accorati accenti,

riguarderebbe vostra altezza e lei.

 

RE -

(Leggendo)

“Dopo molte promesse di sposarmi

“non appena sua moglie fosse morta,

“arrossisco nel dirlo, egli m’ha vinta.

“Ora il conte di Rossiglione è vedovo;

“e di quelle promesse è debitore

“verso di me e verso l’onor mio,

“a lui pagato. Ha lasciato Firenze

“furtivamente, senza congedarsi,

“ed io, per ottener da voi giustizia,

“l’ho seguito fin qui, nel suo paese.

“Accordatemi, sire, la giustizia

“che solo è in vostre mani!

“Non fate che fiorisca un seduttore,

“e sfiorisca una povera fanciulla.

“Di voi devota, Diana Capileti.”

 

LAFEU -

Voglio comprarmi un genero alla fiera

e vender questo al miglior offerente!

Alla larga! Non voglio più saperne!

 

RE -

I cieli mostrano d’averti caro,

Lafeu, portandoti a tale scoperta.

Fate entrare le autrici della supplica,

e introducete qui di nuovo il conte.

 

 

(Escono alcuni del seguito)

 

 

(Alla contessa)

Comincio proprio a temere, signora,

che alla povera Elena la vita

sia stata tolta delittuosamente.

 

CONTESSA -

Se così è, giustizia sui colpevoli!

 

 

Rientra BERTRAMO, sotto scorta

 

RE -

Mi sorprende, signore, di vedere,

dacché le mogli per te sono mostri,

e le fuggi, piantandole in bolletta,

dopo aver lor giurato di sposarle,

che pensi di sposarti un’altra volta.

 

 

Entrano la VEDOVA e DIANA

 

 

Chi sono queste donne?

 

DIANA -

Io sono, sire, un’umil fiorentina,

appartenente all’antica famiglia

dei Capileti. Vostra maestà

ha preso già visione, come intendo,

della supplica, e sa quanto pietoso

sia il mio caso.

 

VEDOVA -

Ed io sono sua madre,

sire, la cui età e il cui onore

hanno sofferto gravissimo oltraggio

dai fatti esposti nella nostra supplica,

e saranno per sempre compromessi

se voi non vi poniate alcun riparo.

 

RE -

Conte, voi conoscete queste donne?

 

BERTRAMO -

Negare di conoscerle, mio sire,

non posso, né lo voglio, innanzi a voi.

Di che m’accusano?

 

DIANA -

Perché, signore,

guardate in questo modo vostra moglie,

come fosse un’estranea?

 

BERTRAMO -

Monsignore!

Non è vero, costei non è mia moglie!

 

DIANA -

Se voi vi sposerete,

darete a un’altra donna questa mano,

ch’è mia; darete via i giuramenti

fatti al cielo per me, che sono miei;

darete via me stessa, perch’io sono,

in forza di quei vostri giuramenti,

tanta parte di voi, che chi vi sposa

sposa anche me… tutti e due o nessuno.

 

LAFEU -

(A Bertramo)

Vedo che avete una reputazione

parecchio mal ridotta, signor mio:

voi non siete un marito per mia figlia.

 

BERTRAMO -

(Indicando Diana)

Mio sovrano, costei è una creatura

infatuata quanto disperata,

con la quale mi sono divertito

qualche volta a Firenze. Vostra altezza,

vorrei che aveste più nobile stima

dell’onor mio, anziché ritenere

ch’io lo voglia affondare in tal pantano.

 

RE -

La mia stima tu non l’avrai amica

finché non te l’avranno guadagnata

le tue azioni; a te di dimostrare

che il tuo onore è più alto

della stima che ora ho io di te.

 

DIANA -

Vogliate domandargli, vostra grazia,

a giuramento, s’egli creda o no

d’avermi tolta la verginità.

 

RE -

(A Bertramo)

Beh, che rispondi?

 

BERTRAMO -

Ch’è una spudorata,

mio signore, notoriamente stata

un facile trastullo a tutto il campo.

 

DIANA -

Mi fa torto, signore; non credetegli.

Se fossi stata quella che lui dice,

m’avrebbe posseduta a poco prezzo.

Guardate quest’anello: è ineguagliabile

per intrinseco pregio e per valore;

e ciò malgrado, lui l’ha dato in dono

a un facile trastullo del suo campo…

s’è vero che ero quella che lui dice.

 

CONTESSA -

Arrossisce, è toccato. Quel gioiello

è passato per sei generazioni,

da uno all’altro dei suoi antenati,

e da loro portato e posseduto.

Quell’anello val più di mille prove

che costei è sua moglie.

 

RE -

(A Diana)

Mi par che abbiate detto d’aver visto

a corte chi lo può testimoniare?

 

DIANA -

Sì, signore, ma ho qualche riluttanza

a valermi per ciò d’un testimone

sì screditato. Il suo nome è Parolles.

 

LAFEU -

L’ho visto oggi quell’uomo,

se così può chiamarsi quello là.

 

RE -

Cercatelo e portatemelo qui.

 

 

(Esce uno del seguito)

 

BERTRAMO -

Che può dire costui? È noto a tutti

che costui è un’infida canaglia,

con tutti i vizi e i difetti del mondo,

uno che a dire solo una parola

di verità, gli viene il mal di capo.

Che vale s’egli dice che son io,

o questo o chiunque altro, se si sa

ch’è pronto a dichiarar qualunque cosa?

 

RE -

Ella ha il tuo anello.

 

BERTRAMO -

Lo so che ce l’ha.

Vero è che mi piaceva e l’ho abbordata

con la spensieratezza giovanile.

Ella ben conosceva la distanza

tra me e lei, e ha saputo adescarmi

infiammando abilmente la mia voglia

con una ben studiata ritrosia;

nelle amorose fantasie, si sa,

ogni ostacolo opposto al desiderio

non fa che accenderne sempre nuove;

alla fine la sua civetteria

unita alla sua grazia disinvolta

m’ebbero al prezzo da lei stabilito:

ebbe l’anello ed io ebbi da lei

quello che un qualsivoglia subalterno

avrebbe avuto a prezzo di mercato.

 

DIANA -

Mi dovrò rassegnare. Giustamente,

voi, che avete potuto ripudiare

una prima sì nobile consorte,

potete ben digiunare di me.

Perciò vi prego - tanto ormai son pronta

a rinunciare a voi come marito,

privo d’ogni virtù come voi siete -,

mandatevi a riprendere l’anello,

ve lo restituisco,

e voi rendetemi il mio.

 

BERTRAMO -

Ma non l’ho.

 

RE -

(A Diana)

Il vostro anello? Che anello, di grazia?

 

DIANA -

Un anello, signore, molto simile

a quello che portate al dito voi.

 

RE -

Riconoscete allora quest’anello?

Questo lo aveva lui.

 

DIANA -

Ed è quello che io gli diedi, a letto,

quella notte.

 

RE -

Ma allora non è vero

che lo gettaste a lui dalla finestra?

 

DIANA -

Io v’ho detto la pura verità.

 

 

Rientra il servo con PAROLLES

 

BERTRAMO -

Confesso, mio signore:

quell’anello era suo.

 

RE -

Che ti succede?

Ti vedo trasalire all’improvviso;

basta una piuma a farti sussultare.

(Indicando Parolles alle donne)

È questo l’uomo di cui parlavate?

 

DIANA -

Sì, vostra grazia.

 

RE -

(A Parolles)

Dimmi un po’, messere,

ma bada a dir la verità, te l’ordino,

senza timore di far dispiacere

al tuo padrone, perché son qua io

a coprirti, se parli onestamente:

che sai di lui e di questa signora?

 

PAROLLES -

Piaccia a vostra maestà, il mio padrone

s’è portato da vero gentiluomo.

Scappatelle ne avrà pur fatte, certo,

come le han fatte tutti i gentiluomini.

 

RE -

Veniamo al punto. Amava questa donna?

 

PAROLLES -

Per amarla, direi di sì, signore;

ma in che modo?

 

RE -

Sei tu che devi dirlo.

 

PAROLLES -

Eh, diciamo, signore, alla maniera

che un gentiluomo sa amare una donna.

 

RE -

E cioè?

 

PAROLLES -

Che l’amava e non l’amava.

 

RE -

Sì e no, allo stesso modo

che tu sei un gaglioffo e non lo sei.

Che equivoco compagno è mai costui!

 

PAROLLES -

Io sono un pover’uomo, monsignore,

agli ordini di vostra maestà.

 

LAFEU -

È un ottimo tamburo, mio signore,

ma come parlatore è proprio zero.

 

DIANA -

Sapete che promise di sposarmi?

 

PAROLLES -

In coscienza, so più di quanto dico.

 

RE -

Vuoi dirci allora tutto quel che sai?

 

PAROLLES -

Sì, con licenza di vostra maestà.

Io facevo da tramite fra i due,

come ho detto; ma in più egli l’amava,

ché, anzi, n’era innamorato pazzo,

e parlava di Satana, del Limbo

e delle Furie, e di non so che altro.

Ma tanto io ero nella lor fiducia,

che sapevo del loro andare a letto

e di tante altre cose di dettaglio,

come la sua promessa di sposarla

e altro, che però solo a parlarne

mi metterei nei guai, ragion per cui

non voglio dire tutto quel che so.

 

RE -

Hai detto quanto basta,

salvo che non ti resti ancor da dire

che si sono sposati.

Ma sei un testimone troppo furbo…

perciò fatti da parte.

(A Diana)

 

 

Quest’anello voi dite ch’era vostro?

 

DIANA -

Sì, signore.

 

RE -

Dove lo compraste,

se lo compraste, o da chi vi fu dato?

 

DIANA -

Non mi fu dato, né l’ho mai comprato.

 

RE -

Allora dite, chi ve l’ha prestato?

 

DIANA -

Non me lo ha dato in prestito nessuno.

 

RE -

Insomma, dove l’avete trovato?

 

DIANA -

Non l’ho trovato.

 

RE -

Se non era vostro

in nessuno di tutti questi modi,

come avete potuto darlo a lui?

 

DIANA -

Io non gliel’ho mai dato.

 

LAFEU -

Questa donna, signore, è come un guanto

che va largo alla mano,

e s’infila e disfila a volontà.

 

RE -

Quell’anello era mio.

Lo diedi io alla sua prima moglie.

 

DIANA -

Per quel che so, può esser vostro o suo.

 

RE -

Bah, portatela via, m’ha infastidito!

Mettetela in prigione; e via anche lui.

(A Diana)

Se non mi dici come l’hai avuto,

quest’anello, fra un’ora sai morta.

 

DIANA -

Non ve lo dirò mai.

 

RE -

Va’, va’ in prigione!

 

DIANA -

Pagherò la cauzione, maestà.

 

RE -

Ora comincio a credere davvero

che sei una volgare prostituta.

 

DIANA -

Per Giove,([93]) se mai uomo mi conobbe,

siete voi.

 

RE -

Perché allora fin qui

non hai cessato di accusare lui?

 

DIANA -

Perché è lui il colpevole,

e tuttavia colpevole non è.

Secondo lui io non sono più vergine,

ed è pronto a giurarlo;

mentr’io posso giurare d’esser vergine,

e che lui non lo sa.

Grande re, io non sono una sgualdrina;

per la mia vita, o è vero che son vergine,

o son la moglie di questo vegliardo.

(Indica Lafeu)

 

RE -

Costei abusa delle nostre orecchie.

Menatela in prigione!

 

DIANA -

Madre cara, portatemi il riscatto.

 

 

(Esce la vedova)

 

 

Un momento, regale mio signore:

ho mandato a chiamare il gioielliere

che ha l’anello, e mi sarà garante.

Quanto a questo signore

che m’ha ingannata, come lui ben sa,

pur se mai m’ha violata, io lo scagiono.

Egli ben sa di aver contaminato

il mio letto, ma quello che non sa

è che, così facendo, ha messo incinta

la donna ch’è la sua moglie legittima,

 

che tutti credon morta,

e che, al contrario, sente già nel grembo

scalciare dolcemente il proprio bimbo.

Ecco dunque l’enigma:

colei che è morta è viva, ed ora è qui,

ed eccovi così la soluzione.

 

 

Rientra la VEDOVA con ELENA

 

RE -

Che razza di stregoneria è questa

che inganna la funzione dei miei occhi?

È realtà quella che vedo?

 

ELENA -

No,

mio buon signore, quella che vedete

è solo l’ombra di una moglie: il nome,

ma non la cosa in sé.

 

BERTRAMO -

Entrambe, entrambe!

Oh, perdono!

 

ELENA -

(A Bertramo)

Signore mio diletto,

quando io ero come questa vergine,

trovai in voi squisita gentilezza.

Eccovi il vostro anello, l’ho io al dito;

e, guardate, ecco qui, la vostra lettera.

Dice: “Quando avrai preso dal mio dito

quest’anello e sarai incinta d’un figlio…”

Questo ora è. Sarete dunque mio,

ora che siete doppiamente vinto?

 

BERTRAMO -

(Al re)

Quand’ella può mostrarmi tutto questo,,

mio sovrano, in maniera inconfutabile,

io prometto che l’amerò per sempre,

teneramente.

 

ELENA -

Se non sarà chiaro,

o si dimostrerà non veritiero,

divorzio e morte sian tra voi e me.

Mia cara madre, siete sempre viva?

 

VEDOVA -

Sì, ma miei occhi annusano cipolle,

sto per piangere…

(A Parolles)

Buon mastro Tamburo,

prestami un fazzoletto… così, grazie.

Accompagnami a casa,

voglio farmi tornare il buon umore

con te. E lascia stare i complimenti,

è roba irrancidita.

 

RE -

Vogliamo ora conoscer questa storia

punto per punto, e far che in allegria

trascorra il flusso della verità.

(A Diana)

Se tu sei fiore ancor fresco e non còlto,

scegli un marito, ti farò la dote;

perché in virtù del tuo onesto aiuto,

come ho capito, hai fatto che una sposa

restasse sposa, e tu restassi vergine.

Di ciò e del più e del meno che è seguìto,

troveremo la giusta spiegazione

a nostro miglior agio.

Tutto è bene, mi sembra tuttavia,

se finisce così.