In un senso puramente visivo, l’isola che forma una barriera attraverso la baia ha fatto il suo sacrosanto dovere per proteggere le comunità dell’interno, anche se qui, nei quartieri dell’entroterra, si vedono molte rovine. Lungo quello che una volta era il Miracle Mile, il traffico diretto verso il ponte è anemico. È evidente, tuttavia, che nella pretesa di Toms River di essere scampata all’uragano c’è un gap di credibilità. Davanti al caffè Launch Pad vedo un Babbo Natale senza barba (chiaramente un messicano) seduto su una cassetta di plastica rossa per le bottiglie del latte con un cartello a lettere rosse appoggiato al ginocchio. IL CAFFÈ VI DÀ CORAGGIO. FELIZ NAVIDAD. Lo saluto con la mano, ma lui si limita a restituirmi l’occhiata, come se gli avessi mostrato il dito medio. Più lontano, davanti ai garanti di cauzione Finalmente Liberi, è parcheggiata una sola macchina, come davanti a un paio di bar con le pareti di amianto, arretrati rispetto alla strada, che sembrano scatoloni in fondo alle distese di ghiaia dei parcheggi. Una volta – prima che la Shore venisse riscoperta e i prezzi andassero alle stelle – si poteva venire qui da Pottstown portando i bimbi e la mogliettina per un weekend e cavarsela con un paio di biglietti da cento. Tutto questo è un sogno, ormai, anche dopo la tempesta. Un cartellone – col messaggio parzialmente strappato dal vento – fa pubblicità alla tournée d’addio di Glen Campbell. Resta solo una metà della faccia di Glen, troppo bella e sorridente, una foto degli anni sessanta, prima di Tanya, dell’alcol e della cocaina. Un affisso cartaceo davanti a uno dei bar – raccolto sul prato di qualcuno dopo le elezioni – è stato riciclato, e invece di “Obama-Biden” ora annuncia: “Siamo tornati. Vaffanculo, Sandy”.
Viaggiando, alle dieci e mezzo ho cominciato a riempire lo spazio interno della macchina con la Fanfara di Copland. Ho comprato tutta la sua opera online. Come sempre, mi sento rimescolare dagli oboe iniziali che cedono il passo agli archi, poi ai timpani e ai contrabbassi. È un mattino tutto cielo nel Wyoming. Joel McCrea sta galoppando attraverso una ventosa prateria. Barbara Britton, appena arrivata dal Vermont, è ritta davanti alla capanna del loro ranch. Perché tarda tanto? È successo qualcosa? Che posso fare, io, una donna sola? Quest’autunno ho consumato tre dischi. Quasi ogni Copland (oggi tocca alla Pittsburgh Symphony diretta da un israeliano) riesce a persuadermi, in quasi ogni singolo giorno, che non sono solo un vecchio che fa le cose che fanno i vecchi: passare dal droghiere a prendere del latte di soia, visitare il periodontista, andare in macchina fino all’aeroporto per dare il bentornato ai giovani soldati, a volte contro la loro volontà. Non ci vuole molto per cambiare la mia prospettiva in un determinato giorno: o in un determinato momento o in una determinata qualunque cosa. Sally mi ficcò un Copland nella calza della Befana un anno fa (Billy the Kid), e questo ha avuto effetti positivi. Io mi regalai Il libro tibetano del vivere e del morire, ma lì non ho fatto molti progressi, anche se dovrei.
Non ho avuto il tempo di guardare le carte della vendita della mia casa ad Arnie Urquhart nel 2004: se ci fu un finanziamento a tasso fisso, a tasso variabile, o se Arnie la pagò con un grosso rotolo di banconote. Naturalmente dovrei ricordare la transazione, visto che si trattava della mia casa e fui io a intascare il malloppo: lo usai per comprare la casa di Haddam, con un bell’avanzo sulla cifra spesa. È come tante altre cose che dovrei fare, e che spesso non faccio. Non è vero che invecchiando le cose scivolano via come la melassa sul piano di un tavolo. Quel che è vero è che non ricordo tanto bene certe cose, e questo è dovuto al fatto che non me ne importa più molto. Oggi ho al polso uno Swatch da pochi soldi, ma ogni tanto m’imbroglio sul giorno del mese, specie verso la fine e all’inizio, quando faccio confusione con “trenta giorni ha settembre...”. Questo, credo, è normale e non mi preoccupa.
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