Non sono riuscito a decifrare la costola del libro, ma ho capito che voleva parlarne con me.
“Dimmi,” ho detto.
“Be’.” Ha increspato le labbra. “Nel 1862, proprio quando infuriava la Guerra civile, la cavalleria degli Stati Uniti trovò il tempo di sedare una rivolta indiana nel Minnesota. Lo sapevi?”
“Sì,” ho detto. “La rivolta dei Dakota. È piuttosto nota.”
“Okay. Tu la conosci. Io no.”
“Ne so qualcosa,” ho detto, e ho abbassato lo sguardo su una fetta di banana.
“Okay. Ma... Nel dicembre del 1862 il nostro governo impiccò trentotto guerrieri Sioux su un unico grande patibolo. Tutti in una volta.”
“Anche questo è noto,” ho detto. “A quanto pare, avevano massacrato ottocento bianchi. Non che questa sia una scusante.”
Sally ha respirato e poi distolto il viso in un modo da cui si poteva intuire che forse stava uscendole dagli occhi, tremolando, una lacrima che non voleva farmi vedere. “Ma sai cosa dissero?” Queste parole sono state quasi soffocate dall’emozione che le stringeva la gola.
“Cosa dissero chi?”
“Gli indiani. Si misero tutti a urlare mentre erano sulla forca, in attesa di essere impiccati e di non parlare mai più.”
Non lo sapevo. Ma ho alzato lo sguardo per farle capire che mi rendevo conto che questa cosa era importante per lei, e che quello che avrebbe detto dopo sarebbe stato importante anche per me. Forse il cucchiaio si era fermato mentre descriveva un arco verso la mia bocca. È possibile che io abbia scosso la testa, stupito.
“Urlarono tutti: ‘Sono qui!’. Cominciarono a gridarlo nella loro lingua Sioux, su quell’orrenda impalcatura che stava per ucciderli. La gente che li udì disse che la scena incuteva un timore reverenziale.” (Non che era “mitica” o “fichissima”.) “Nessuno l’ha mai dimenticato. Poi li impiccarono. Tutti. Nello stesso momento. ‘Sono qui.’ Come se questo aggiustasse tutto. Come se rendesse la morte tollerabile e meno spaventosa. Come se desse loro la forza.” Sally ha scosso la testa. La sua lacrima di angoscia per il lontano 1862 non è affiorata. Si stringeva il libro al petto e mi ha sorriso tristemente, attraverso il piano di vetro di un tavolo sul quale avevo consumato forse tremila colazioni. “Ho solo pensato che avresti voluto saperlo. Scusa se ti ho rovinato la colazione.”
“Sono lieto di saperlo, amore,” ho detto io. “Non mi hai affatto rovinato la colazione.”
“Sono qui,” ha detto lei, e sembrava imbarazzata.
“Anch’io,” ho risposto.
E con queste parole si è alzata, ha girato intorno al tavolo quadrato, mi ha baciato una volta sulla fronte, ancora imbarazzata, ed è andata via, a rimettere il libro nella stanza da dov’era venuta.
A metà del ponte, che attraverso nella direzione di una cupissima Seaside Heights, dove chissà cosa mi aspetta (sviolinate, indignazione, integrità offesa e violazione di ogni sano principio), mi rendo conto che non c’è proprio nulla che io possa fare per i problemi domiciliari di Arnie Urquhart, o comunque per aggiustare le cose.
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