Mario protestò in italiano che quello che il Gaia aveva stabilito era impegnativo per lui. Lo disse scandendo le sillabe, e il tedesco asserì di aver capito e di accontentarsi.

Il Gaia offerse il caffè, e subito il rappresentante di Westermann trasse dalla tasca di petto delle carte di formato grande, il contratto già pronto in duplice copia. Lo stese sul tavolo e vi si chinò con tutto il petto. Mario pensò: "Che soffra anche di lombaggine?".

Aveva fretta il Gaia. Strappò le carte all'altro e si mise a tradurre a Mario il contratto. Trascurò molte clausole che erano adottate per tutti i suoi contratti dalla grande ditta editrice, e parlò di tutti i vantaggi ch'egli con quel contratto aveva procurato a Mario. Egli diceva proprio le parole che avrebbe impiegate se non si fosse trattato di un affare per burla: “Capirai che mi sono meritata la mia provvigione. Ho passata tutta la notte a discutere con costui. - E si permise di schizzare un po' di quel veleno di cui era pieno: - Tu, se io non t'aiutavo, non avresti saputo far nulla”.

In forza di quel contratto il Westermann avrebbe pagato a Mario duecentomila corone, e acquistava così il diritto di traduzione del romanzo in tutto il mondo. “Per l'Italia rimani tu il proprietario. Ho pensato di riservare a te questa proprietà, perchè chissà che valore potrà acquistare il romanzo in Italia quando si saprà ch'è stato tradotto in tutte le lingue. - Per essere più chiaro ripetè:- L'Italia resta a te, intera”. E non rise, il volto addirittura ghiacciato nell'espressione dell'uomo che aspetta consenso e plauso.

Mario ringraziò con effusione. Gli pareva di vivere in un sogno. Avrebbe abbracciato il Gaia, e non perchè gli aveva regalato l'Italia, ma perchè prevedeva che anche in Italia, presto, il romanzo si sarebbe conquistato il suo posto al sole. Si rimproverava l'istintiva antipatia che per lui aveva sempre sentita, e s'andava persuadendo all'affetto: "È più che buono, è utile. Ci guadagno io, ed è tanto bello da parte sua di dimostrarsene soddisfatto".

Ricordava però l'angoscia sofferta la notte e, attaccandosi affettuosamente al braccio del Gaia, propose che nel contratto fosse inserita una clausola che obbligasse il Westermann alla pubblicazione del romanzo almeno in tedesco prima della fine del diciannove. Aveva fretta il povero Mario, e avrebbe voluto anche sacrificare una parte delle duecentomila corone, se con ciò avesse potuto affrettare l'avvento del grande successo. “Io non sono più tanto giovine - disse per scusarsi - e vorrei veder tradotto il mio romanzo prima della mia morte”.

Il Gaia era indignato, e il suo disprezzo per Mario cresceva nella proporzione in cui aumentava l'affetto di questo per lui. Ci voleva una bella presunzione a discutere la proposta che gli veniva fatta per quello straccio di romanzo privo di valore.

Come aveva saputo celare il riso, così soppresse - e con la stessa fatica - ogni manifestazione di disdegno, e per poter ridere meglio più tardi, avrebbe anche voluto trovare il modo d'inserire nel contratto la clausola desiderata da Mario. Ma non c'era posto in quelle pagine (veramente dedicate ad un contratto per il trasporto di vino in vagoni cisterna) eppoi non c'era la possibilità di lavorare in presenza di Mario o anche di fingere di lavorare con quella voglia di schiattare dal ridere in corpo. Il Gaia, dopo un momento di esitazione riempito da tanta malizia che si sentì costretto a coprirsi la faccia con la mano per grattarsi prima il naso, poi la fronte e infine il mento (sapeva forse ridere con una parte del viso alla volta) si mise gravemente a discutere la domanda di Mario. Dapprima emise il dubbio che forse il Westermannn si sarebbe potuto seccare di tante pretese, eppoi, vedendo che Mario appariva dolente di vedersi negata una domanda che non danneggiava in niente il Westermann, e dava tanta quiete a lui, ebbe un'alzata d'ingegno: “Ma non credi che chi pagò duecentomila corone avrà ogni ragione d'affrettarsi a far fruttare il suo denaro?”.

Mario riconobbe la bontà dell'argomento, ma il suo desiderio era tanto forte che qualunque argomento non sarebbe bastato ad annullarlo. Attendere ancora? Che cosa avrebbe fatto tutto quel tempo? Le favole non si fanno che in giornate ricche di sorprese. Aspettare è un'avventura, anzi una sventura sola, e può dare una favola sola, ch'egli aveva già fatta: la storia di quel passero che moriva di fame aspettando del pane là ove, per caso, una volta sola ne era stato sparso (esempio d'ingordigia e d'inerzia associate, che si ritrova talvolta nelle favole): Mario era esitante. Cercò e non trovò qualche altra parola (non troppo forte) per insistere nella propria preghiera. E ci fu perciò un'altra pausa nelle trattative.