Come! Mi dava del tu? Ma la bella signora Anna Wheil era sparita. Me la ritrovo ora qua accanto, in quest'aria verde, in questa luce del mio studio, vestita come tre anni fa del suo abito bianco d'organdis. - Il mio seno, se sapessi! Ne sono morta. Me lo hanno reciso. Un male atroce ne fece scempio due volte. La prima, un anno appena dopo che tu, di qua, ricordi? me lo intravedesti. Ora posso allargare con tutt'e due le mani la scollatura e mostrartelo tutto, com'era, guardalo! guardalo! ora che non sono più. Guardo; ma sul divano è solo il bianco del giornale aperto.
VITTORIA DELLE FORMICHE
Una cosa per sè forse ridicola ma, agli effetti, terribile: una casa invasa tutta dalle formiche. E questo pensiero folle: che il vento si fosse alleato con esse. Il vento con le formiche. Alleato, con quella sconsideratezza che gli è propria, da non potersi nell'impeto fermare neppure un minuto per riflettere a quello che fa. Detto fatto, a raffica, s'era levato giusto sul punto che lui prendeva la decisione di dar fuoco al formicajo davanti la porta. E detto fatto, la casa, tutta in fiamme. Come se per liberarla dalle formiche lui non avesse trovato altro espediente che il fuoco: incendiarla. Ma prima di venire a questo punto decisivo sarà bene ricordarsi di molte cose precedenti che possono spiegare in qualche modo sia come le formiche avevano potuto invadere fino a tanto la casa e sia come poté nascere a lui il pensiero stravagante di quest'alleanza tra le formiche e il vento.
Ridotto alla fame, da agiato come il padre l'aveva lasciato morendo, abbandonato dalla moglie e dai figli che s'erano acconciati a vivere per conto loro alla meglio, liberati alla fine dalle sue soperchierie che si potevano qualificare in tanti modi, ma sopra tutto incongruenti; lui che al contrario si credeva loro vittima per troppa remissione e non corrisposto mai da nessuno di loro nei suoi gusti pacifici e nelle sue vedute giudiziose; viveva solo, in un palmo di terra che gli era restato di tutti i beni che prima possedeva, case e poderi; un palmo di terra bonificata, sotto il paese, sul ciglio della vallata, con una catapecchia di appena tre stanze, dove prima abitava il contadino che aveva in affitto la terra. Ora ci abitava lui, il signore ridotto peggio del più miserabile contadino; vestito ancora d'un abito da signore che addosso a lui appariva orribilmente più strappato e unto che addosso a un mendicante che l'avesse avuto in elemosina. Pur tuttavia quella sua signorile spaventosa miseria pareva a volte quasi allegra, come certe toppe di colore che i poveri portano sui loro abiti e quasi fanno loro da bandiera. Nella lunga faccia smorta, negli occhi pesti ma vivi, aveva un che di gajo che s'accordava coi ricci svolazzanti del capo, mezzi grigi e mezzi rossi; e certi ilari guizzi negli occhi, subito spenti al pensiero che, scorti per caso da qualcuno, lo facessero creder pazzo. Capiva lui stesso ch'era molto facile che gli altri si facessero di lui un tal concetto. Ma era proprio contento di farsi ormai tutto da sé come piaceva a lui; e assaporava con gusto infinito quel poco e quasi niente che poteva offrirgli la povertà. Non aveva nemmeno tanto da accendere il fuoco tutti i giorni per cucinarsi una minestra di fave o di lenticchie. Gli sarebbe piaciuto, perché nessuno sapeva cucinarla meglio di lui, dosandovi con tanta arte il sale e il pepe e mescolandovi certe verdure appropriate che, durante la cottura, solo a odorarla la minestra inebriava; e poi, a mangiarla, un miele. Ma sapeva anche farne a meno. Gli bastava, la sera, uscir fuori a due passi dalla porta, cogliere nell'orto un pomodoro, una cipolla per companatico alla solida pagnotta che con meticolosa cura affettava con un coltellino e con due dita, pezzetto per pezzetto, si portava alla bocca come un boccone prelibato. Aveva scoperto questa nuova ricchezza, nell'esperienza che può bastar così poco per vivere; e sani e senza pensieri; con tutto il mondo per sé, da che non si ha più casa né famiglia né cure né affari; sporchi, stracciati, sia pure, ma in pace; seduti, di notte, al lume delle stelle, sulla soglia d'una catapecchia; e se s'accosta un cane, anch'esso sperduto, farselo accucciare accanto e carezzarlo sulla testa: un uomo e un cane, soli sulla terra, sotto le stelle.
Ma senza pensieri, non era vero. Buttato poco dopo su un pagliericcio per terra come una bestia, invece di dormire si metteva a mangiare le unghie e, senza badarci, a strapparsi coi denti fino al sangue le pipite delle dita, che poi gli bruciavano gonfie e suppurate per parecchi giorni. Ruminava tutto ciò che avrebbe dovuto fare e che non aveva fatto per salvare i suoi beni; e si torceva dalla rabbia o mugolava per il rimorso, come se la sua rovina fosse accaduta jeri, come se jeri avesse finto di non accorgersi che sarebbe accaduta tra poco e che ormai non era più rimediabile. Non ci poteva credere! Uno dopo l'altro s'era lasciati portar via dagli usuraj i poderi, e una dopo l'altra le case, per poter disporre d'un po' di danaro di nascosto dalla moglie, per pagarsi qualche piccola passeggera distrazione (veramente, non piccola né passeggera; era inutile che cercasse adesso attenuazioni; doveva rotondamente confessarsi che aveva vissuto di nascosto per anni come un vero porco, ecco, così doveva dire: come un vero porco; donne, vino, giuoco) e gli era bastato che la moglie non si fosse ancora accorta di nulla, per seguitare a vivere come se neppur lui sapesse nulla della rovina imminente; e sfogava intanto le bili e le smanie segrete sul figlio innocente che studiava il latino. Sissignori. Incredibile: s'era messo a ristudiare il latino anche lui, per sorvegliare e ajutare il figlio; come se non avesse altro da fare e fosse davvero un'attenzione e una cura, questa sua, che potesse compensare il disastro che intanto preparava a tutta la famiglia.
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