A lui non riusciva di portar ordine nelle sue carte. Qua e là era visibile il tentativo di regolarle in alcuni pacchetti riuniti, ma le caselle erano in disordine; l’una era riempita di troppo e disordinata-mente, l’altra invece vuota. Miceni gli avea spiegato il sistema per dividere le carte secondo il loro contenuto o la destinazione e Alfonso lo aveva capito, ma, per inerzia, dopo il lavoro della giornata non sapeva adattarsi ad altra fatica non assolutamente necessaria.

Miceni già in atto di andare gli chiese:

– E ancora non sei stato invitato dal signor Maller?

Alfonso accennò di no; sfogatosi in quella lettera a sua madre, l’invito gli sarebbe stato una seccatura e null’altro.

Era Miceni la causa che Alfonso nella lettera alla madre aveva alluso alla superbia dei principali; gli aveva parlato spesso dell’invito mancato. Vigeva l’uso che ogni nuovo impiegato venisse presentato in casa Maller, e a Miceni doleva che Alfonso non ne avesse ricevuto l’invito, perché, con questa prima ommissione, vedeva perdersi un’usanza cui egli sembrava tenerci.

Miceni era un giovine mingherlino con una testa straordinariamente piccola, fornita di capelli neri ricciuti che portava corti. Era vestito da persona che può permettersi qualche lusso, acconciato con accuratezza poi, come il suo tavolo.

Non solo nel vestire Alfonso differiva dal suo collega. Era pulito, però dal solino di bucato ma giallognolo, alla giubba grigia, tutto dinotava in lui il gusto poco raffinato e il desiderio di spenderli corti. Miceni, vanerello, gli rimproverava che l’unico suo lusso consistesse nei due occhi intensamente azzurri, l’effetto dei quali era scemato, sempre secondo Miceni, da una barba troppo abbondante di color castagno, tenuta senza cura. Alto e robusto, in piedi appariva troppo lungo, e tenendosi con tutto il corpo alquanto chino per innanzi quasi volesse assicurarsi dell’equilibrio, sembrava debole e incerto.

Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 7

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli Italo Svevo Una vita II

Q

Entrò correndo Sanneo, il capo corrispondente. Era un uomo sulla tren-tina, alto e magro, i capelli di una biondezza sbiadita. Aveva ogni parte del lungo corpo in continuo movimento; dietro agli occhiali si movevano irrequieti gli occhi pallidi.

Chiese un libro d’indirizzi ad Alfonso, e, la parola non abbastanza pronta, con le mani cercava d’indicare la forma del libro, fremendo d’impazienza.

Quando l’ebbe, già scartabellandolo nervosamente, guardò Miceni sorridendo con cortesia e lo pregò di rimanere perché doveva dargli ancora del lavoro.

Miceni, pronto, si levò il soprabito, lo appese con cura, sedette e prese la penna in mano in attesa delle istruzioni.

Il signor Sanneo era antipatico ad Alfonso, perché brusco, ma era costretto ad ammirarlo. Di un’attività prodigiosa in un organismo debole, il signor Sanneo aveva una memoria ferrea, sapeva di ogni piccolo affare, per quanto remoto, le più minute particolarità. Sempre sveglio, maneggiava la penna con rapidità fulminea e non senza abilità. In certe giornate passava dieci ore di fila in ufficio, instancabile nel regolare e registrare. Per piccolezze, Alfonso lo sapeva dai copialettere che talvolta doveva leggere, sollevava pole-miche accanite.

– Perché si sacrifica in tale modo? – si chiedeva Alfonso che non comprendeva la passione per quel lavoro.

Sanneo aveva un difetto che Alfonso apprese da Miceni. Era volubile, dava le sue preferenze a capriccio e sempre perseguitando i non preferiti.

Sembrava davvero che in ufficio egli non potesse avere più di una simpatia alla volta. In allora prediligeva Miceni.