Faceva sempre dei saluti collettivi.

Il servo del signor Maller, Santo, seguì il principale lungo tutto il corridoio per aprirgli la porta d’uscita. Era un ometto non vecchio, con un barbo-ne biondo e qua e là incolore, la testa precocemente calva. Faceva la bella gamba, a quanto se ne diceva, non avendo da fare altro che servire il signor Maller, mentre gli altri fanti erano addetti agli uffici.

Ritornato nella propria stanza, Alfonso trovò Miceni che già accanitamente scriveva. Costui alquanto corto di vista, per scrivere, col naso quasi toccava la carta.

Sul tavolo di Alfonso c’erano i dispacci autografati, mancanti degl’indirizzi; una lettera di scrittura del signor Sanneo da copiarsi in conferma del dispaccio e infine un bollettino con cinque nomi, quelli delle case a cui era da indirizzarsi l’offerta.

– Cinque soltanto?

– Sì – rispose Miceni; – scrivono anche i contabili. Per le nove e mezzo circa avremo finito.

Non aveva alzato la testa; la sua penna aveva continuato a scorrere sulla carta.

Alfonso appose un indirizzo su un dispaccio, poi lo trascrisse su una carta di lettera. Si mise a leggere il dispaccio: conteneva l’indicazione succinta dello scopo a cui la Banca Ipotecaria veniva fondata, toccava con discrezione dell’appoggio promesso dal governo e accennava alla difficoltà di poter avere parte nel sindacato: “è dimostrazione di nostra preferenza che offriamovi…” e seguiva uno spazio in bianco che Alfonso riempì col numero delle azioni offerte. La lettera si estendeva a maggiori particolari. Parlava della necessità dell’istituzione di grandi banche in Italia, quindi della certezza che aveva la nuova banca di trovare lavoro proficuo.

Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 11

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli Italo Svevo Una vita II

Q

Miceni gli disse di scrivere rapidamente la prima lettera perché doveva servire poi di copia agli altri scrivani, ma Alfonso non sapeva scrivere presto.

Gli toccava rileggere più volte prima di saper trascrivere una frase. Fra una parola e l’altra lasciava correre il suo pensiero ad altre cose e si ritrovava con la penna in mano obbligato a cancellare qualche tratto che nella distrazione gli era venuto fatto disforme dall’originale. Anche quando gli riusciva di rivolgere tutta la sua attenzione al lavoro, non procedeva con la rapidità di Miceni perché non sapeva copiare macchinalmente. Essendo attento, correva sempre col pensiero al significato di quanto copiava e ciò lo arrestava. Per un quarto d’ora non si udì che lo stridere delle penne e di tempo in tempo il rumore fatto da Miceni voltando le pagine.

La porta si aprì con fracasso e sul limitare, ove rimase impalato per qualche istante, si presentò Ballina, l’impiegato che attendeva da Alfonso la lettera di Sanneo per farne altre copie.

– E questa lettera?

Era un bell’uomo dallo sguardo intelligente alquanto furbesco, un paio di mustacchi alla Vittorio Emanuele, la barba però non fatta. Fumava e il fumo non soffiato via, lo avrebbe volontieri riassorbito per goderne di più, riempiva i mustacchi e saliva coprendogli il volto fin sotto agli occhi. La sua giubba di lavoro doveva essere stata di color bianco, era giallognola ora, salvo che le maniche, adoperate per nettare le penne, all’avambraccio del tutto nere. Lavorava in una stanzetta che aveva l’entrata sul piccolo corridoio come quella di Miceni.

Miceni alzò il capo con un sorriso amichevole. Ballina veniva veduto sempre volontieri perché buffone, il buffone della banca. Quella sera non aveva voglia e si lamentava.