Poiché non era stato affrontato alcun lungo viaggio dal tempo di Haroun al Raschid, nessuno sapeva che via prendere; e Vathek, per quanto versato nel corso delle stelle, non conosceva più la sua posizione sulla terra. Il califfo tuonava più forte degli elementi e borbottava certe frasi che non sonavano molto dolci a orecchi letterati. Disgustato dalla strada faticosa e lenta, decise di attraversare le alture rocciose e di seguire la guida di un villano che aveva promesso di portarlo in quattro giorni a Rocnabad. Qualsiasi rimostranza sarebbe stata vana: la sua decisione era presa.

Le donne e gli eunuchi emisero acutissimi gemiti alla vista dei precipizi sotto di loro e degli orridi paesaggi che offrivano le gole di quelle montagne. Prima che la carovana avesse potuto raggiungere la salita più ripida, li sorprese la notte, e sorse una furibonda tempesta che strappò le tende ai palanchini e alle gabbie ed espose alle crude raffiche le povere donne che non avevano mai sentito prima un freddo cosi pungente. Le nubi scure che coprivano il cielo facevano più cupo l'orrore di quella spaventosa notte, tanto che non si arrivò a distinguere altro che i gemiti dei paggi e i lamenti delle sultane.

A peggiorare la situazione generale, si udivano lontano i muggiti delle belve e poco dopo, nella foresta che la carovana costeggiava, apparvero occhi balenanti che potevano appartenere solo a tigri o a dèmoni. I pionieri che alla meglio avevano tracciato un sentiero, e una parte dell'avanguardia, furono divorati prima che potessero accorgersi del pericolo. La confusione che ne segui fu estrema. Lupi, tigri e altri animali carnivori, chiamati dai ruggiti dei loro compagni, accorsero da ogni parte, e su tutto si udì un sinistro battere di ali, poiché anche gli avvoltoi erano ormai della partita.

Il terrore raggiunse alfine il grosso delle truppe che circondavano il monarca e il suo harem a distanza di due leghe dalla scena. Vathek, voluttuosamente disteso sopra cuscini di seta nella sua capace lettiga (e aveva ai piedi due piccoli paggi d'aspetto più bello degli smalti di Franguestan, occupati a scacciare le mosche), dormiva placidamente e contemplava in sogno i tesori di Solimano. Ma gli strilli delle sue mogli lo svegliarono di soprassalto; e invece del Giaurro con la sua chiave d'oro scorse Bababalouk pieno di costernazione. — Sire, — esclamò questo buon servitore del più potente dei monarchi, — la sfortuna è arrivata al colmo: branchi di belve che non hanno per la tua sacra persona più reverenza di quanta ne avrebbero per un asino morto, hanno assalito i tuoi cammelli e i loro conducenti; trenta di quelli che portavano il carico più prezioso sono già divenuti loro preda, e cosi i tuoi pasticceri, i tuoi cuochi e i tuoi provveditori; e se il nostro santo Profeta non ci protegge, ci divoreranno fin all'ultimo boccone. — A questo accenno al cibo il califfo perse la pazienza. Cominciò a maledire e a battere se stesso (poiché nell'oscurità non si distingueva più nulla). Il frastuono cresceva ad ogni istante; e Bababalouk, comprendendo che nulla di buono si poteva concludere col suo padrone, si tappò entrambe le orecchie per non udire il tumulto dell'harem e gridò a gran voce: — Venite, signore e fratelli! Tutti all'opera: fate luce, presto! Non si dirà mai che il capo dei fedeli è servito da pasto a questi bruti blasfemi. — Benché non mancasse in quel gruppo di bellezze un discreto numero di capricciose e di perverse, pure, in quell'occasione, furono tutte compiacenti. In un momento si accesero fuochi in tutti i loro padiglioni. Diecimila torce si accesero insieme. Lo stesso califfo accese una grande candela; ciascuno segui il suo esempio e con pezzi di corda inzuppati nell'olio e assicurati in cima alle pertiche si fecero stoppacci di abbagliante splendore. Le rocce si illuminarono con lo splendore del sole. Scintille portate dal vento appiccarono il fuoco alle felci secche che vi si trovavano in gran quantità. Si videro serpi uscire dalle loro tane, abbagliate e soffocate; mentre i cavalli sbuffavano scalpitando, e alzavano le froge all'aria, e si impennavano senza tregua.

Una delle foreste di cedro che costeggiavano la strada s'incendiò; e i rami incrociantisi sul sentiero attaccarono il fuoco alle mussole e ai cinz che coprivano i padiglioni delle dame e le obbligarono a uscir fuori a rischio della loro vita. Vathek in persona, che sprecò in quell'occasione un migliaio di bestemmie, fu costretto a toccare col suo sacro piede la nuda terra.

Un simile incidente non si era mai verificato prima. Piene di mortificazione, di vergogna e di avvilimento, e non sapendo camminare, le dame caddero nel fango. — Devo andare a piedi? — diceva una. — Devo bagnarmi? — gridava un'altra. — Devo insozzarmi la veste? — domandava una terza. — Esecrabile Bababalouk! — esclamavano tutte insieme, — rifiuto dell'inferno! Che hai fatto con queste torce? Meglio sarebbe stato essere mangiate dalle tigri che cadere in questo stato! Siamo rovinate per sempre! Non c'è un portatore in tutto l'esercito, non un conducente di cammello, che non abbia visto qualche parte del nostro corpo e, quel ch'è peggio, le nostre facce! — Dicendo questo, le più timide fra loro nascondevano il viso per terra, mentre le più audaci si lanciarono verso Bababalouk. Egli però, consapevole delle loro intenzioni e non privo di accortezza, si diede alla fuga con i suoi compagni, lasciando cadere le torce e battendo i tamburi.

La luce faceva pensare ai più ardenti giorni della canicola e l'aria era calda in proporzione; ma come degradante lo spettacolo del califfo imbrattato di fango come un qualsiasi mortale! Poiché l'esercizio di ogni sua facoltà sembrava sospeso, una delle mogli etiopi (giacché Vathek si compiaceva di una certa varietà) lo prese fra le braccia, se lo gettò in spalla come un sacco di datteri e, accorgendosi che il fuoco li incalzava, parti con non piccola velocità considerato il peso del suo fardello. Le altre signore, che avevano appena imparato a usare i piedi, la seguirono; le guardie galopparono al loro seguito; e i cammellieri cercarono di tener loro dietro per quanto i carichi lo permettevano.

Cosi raggiunsero il luogo dove le belve avevano cominciato il macello, ma che già avevano avuto il buon senso di abbandonare all'avvicinarsi del tumulto, non senza aver fatto un'ottima cena.