Fa' piuttosto che io possa fissare i miei occhi nei suoi e respirare il suo puro alito mentre corre ansante per queste incantevoli balze. — Cosi dicendo tese le braccia verso il monte; e volgendo lo sguardo con ansietà fin allora ignorata cercava di non perdere di vista la figura che lo affascinava; ma la corsa di lei era difficile a seguirsi come il volo di quelle bellissime farfalle azzurre del Kashmir che sono a un tempo cosi fuggevoli e rare.

Il califfo, desideroso di udire Nouronihar oltre che di vederla, si volgeva ansiosamente per cogliere il suono della sua voce. Finalmente la individuò, dietro la macchia da cui aveva gettato i gelsomini, che sussurrava a una compagna: — È piacevole la vista di un califfo, bisogna ammetterlo; ma il mio Goulchenrouz è ben più amabile: una ciocca dei suoi capelli m'è più cara dei più fini ricami delle Indie. Io preferirei che un mio dito fosse maliziosamente stretto fra i suoi denti piuttosto che cinto dal più prezioso anello del tesoro imperiale. Perché non è più qui ora? Sutlememe, dove l'hai lasciato?

Il califfo, agitato, avrebbe desiderato di poter sentire di più, ma la vide subito allontanarsi con tutto il suo seguito. L'innamorato monarca la segui con gli occhi finché non gli fu uscita di vista; e si senti allora come un confuso e smarrito viandante a cui le nubi avessero oscurato la costellazione che lo guidava. Pareva che su di lui fosse discesa l'ombra cupa della notte e che ogni cosa fosse priva di colore. Il rumore della cascata gli riempiva l'animo di tristezza e le sue lacrime cadevano sui gelsomini di Nouronihar ch'egli aveva raccolti e posati sul cuore infiammato. Scelse pochi sassolini lucenti per ricordarsi del luogo dove per la prima volta l'amore l'aveva turbato. Due ore erano trascorse e già era scesa la sera, quando si risolse ad allontanarsi dal prato. Molte volte, e sempre invano, egli tentò di andarsene: ma un dolce languore gli ottenebrava la mente. Sdraiato sull'orlo del ruscello, volse gli occhi verso le azzurre cime delle montagne ed esclamò: «Che cosa nascondi dietro di te, o roccia spietata? Che cosa passa nelle tue solitudini? Dov'è andata? O cielo! forse ella vaga ora fra le tue grotte con il suo fortunato Goulchenrouz!»

Nel frattempo l'aria diventava umida, e l'emiro, preoccupato per la salute del califfo, comandò che si portasse la lettiga imperiale. Vathek vi fu adagiato, immerso nelle sue fantasticherie, e fu portato al salone che lo aveva accolto la sera prima. Ma lasciamo il califfo cosi preso dalla sua nuova passione, e seguiamo Nouronihar oltre le rocce dove aveva di nuovo raggiunto il suo diletto Goulchenrouz.

Codesto Goulchenrouz era figlio di Ali Hassan, fratello dell'emiro, ed era la più bella e delicata creatura che esistesse. Ali Hassan, che era stato lontano dieci anni in un viaggio per mari sconosciuti, alla sua partenza aveva affidato questo fanciullo, l'unico superstite di molti, alla protezione e alle cure di suo fratello. Goulchenrouz sapeva scrivere sapientemente in diverse lingue e dipingere sulle pelli i più eleganti arabeschi che fantasia umana possa concepire. La sua voce dolce accompagnava il liuto nella maniera più incantevole; e quando egli cantava gli amori di Megnoun e Leilah o di altri infelici amanti di tempi passati, le lacrime scorrevano infrenabili sulle guance di chi lo ascoltava. I versi che egli componeva (poiché come Megnoun, anch'egli era poeta) ispiravano quel languore irresistibile cosi spesso fatale al cuore femminile. Tutte le donne lo adoravano; e sebbene egli avesse passato i tredici anni, continuavano a tenerlo con loro nell'harem. La sua danza era lieve come una ragnatela mossa dagli zeffiri della primavera; ma le sue braccia che si intrecciavano con quelle delle fanciulle nella danza non sapevano né scagliare la lancia nella corsa, né frenare i cavalli che pascolavano nei domini dello zio. Egli sapeva tuttavia tirar d'arco con una certa abilità, e avrebbe superato i suoi rivali nella corsa se avesse potuto spezzare i legami che lo tenevano avvinto a Nouronihar.

I due fratelli aveva d'accordo promesso i loro figli l'uno all'altro; e Nouronihar amava suo cugino più dei propri bellissimi occhi. Essi avevano gli stessi gusti, gli stessi lunghi e languidi sguardi, lo stesso colore di capelli e la stessa chiara carnagione, e amavano gli stessi giochi; e quando Goulchenrouz si vestiva con gli abiti di sua cugina, sembrava una fanciulla ancor più di lei stessa. E se qualche volta lasciava l'harem per far visita a Fakreddin, lo faceva con tutta la timidezza di un fauno che consapevole si avventuri fuori dalla tutela della madre. Era tuttavia abbastanza impertinente da beffeggiare le solenni barbe grige, per quanto sicuro di essere in cambio severamente riprovato da esse. Ogni volta che questo accadeva, si rifugiava rapidamente nei recessi dell'harem, dove singhiozzante si buttava nelle consolanti braccia di Nouronihar che amava perfino i suoi difetti, e più delle virtù degli altri.

Quella sera, dopo aver lasciato il califfo nella radura, ella corse con Goulchenrouz sopra il verde tappeto della montagna che riparava la valle in cui Fakreddin aveva posto la sua dimora. Il sole moriva sul limite dell'orizzonte; e i due giovani, la cui fantasia era vivace e piena d'inventiva, sognavano di vedere nelle belle nubi dell'Ovest le cupole di Shaddukian e Ambreabad, dove le Peri hanno eletto la loro dimora. Nouronihar, seduta sul declivio della collina, sorreggeva sulle ginocchia la testa profumata di Goulchenrouz. L'inatteso arrivo del califfo e lo splendore che accompagnava la sua apparizione avevano di già riempito di emozione l'anima ardente della fanciulla. La sua vanità la spingeva irresistibilmente a suscitare l'attenzione del principe; e proprio a questo aveva mirato gettando i gelsomini che il principe aveva raccolto. Ma quando Goulchenrouz le domandò dei fiori che egli aveva colto per il suo petto, ne fu tutta confusa.