Forse, avrei potuto seguire le tracce di quell’uomo così immensamente sincero per un certo tempo, ma dovevo badare ad alcune faccende mie molto urgenti, che infine furono sconvolte da un terremoto, così che non ebbi tempo da dedicare a Ricardo. Ma non c’è bisogno di dire al lettore che non l’ho dimenticato.
I miei contatti col fedele Pedro furono assai più brevi, e il mio esame di lui meno completo, ma incomparabilmente più commosso. Si concluse con la subitanea ispirazione di levarmi del tutto dalla sua strada.
Eravamo in una botteguccia di legname e di stuoie, vicino a un sentiero. Poiché io ci entrai solo per chiedere una bottiglia di limonata, ancora oggi non ho la minima idea di quello che ci fosse nel mio aspetto o nel mio comportamento, per suscitare in lui un furore così terribile. Esso mi divenne evidente meno di due minuti dopo che avevo messo gli occhi sopra di lui per la prima volta, e s’intende che, sebbene fossi immensamente sorpreso, non mi fermai a pensarci sopra. Me la battei per la via più breve, attraverso la parete. Questa apparizione bestiale, e un enorme negro crespo, incontrato ad Haiti solo un paio di mesi dopo, hanno fissato la mia concezione di una rabbia cieca, furiosa, sragionante, quale si manifesta nell’animale umano, fino alla fine dei miei giorni. Quel negro me lo sono sognato, dopo di allora, per molti anni. Ma Pedro non l’ho sognato mai. L’impressione era stata meno vivace. Mi ero allontanato da lui troppo alla svelta.
Mi sembra cosa del tutto naturale che quei tre, sepolti in un angolo della mia memoria, dovessero improvvisamente ritornar fuori alla luce del mondo, tanto naturale che non presenterò nessuna scusa per la loro esistenza. Erano là, e dovevano venir fuori; e questa è una scusa sufficiente per uno scrittore di racconti, il quale si è messo a questo mestiere senza preparazione, o premeditazione, e senza alcun intendimento morale, tranne quello che pervade tutta quanta la struttura di questo mondo dei sensi.
Poiché questa Nota si occupa soprattutto dei contatti personali e dell’origine dei personaggi del racconto, debbo anche parlare di Lena, perché, se la lasciassi fuori, questo sembrerebbe una scortesia; e niente sarebbe più lontano dai miei intendimenti che fare cosa scortese verso Lena. Se, fra tutti i personaggi che hanno a che fare col «mistero di Samburan», ho vissuto più a lungo con Heyst (o con la persona che io chiamo Heyst), il personaggio che ho invece osservato più a lungo e con un’attenzione più continuativa è stata lei, quella che chiamo Lena. Questa attenzione ebbe origine in uno stato di ozio, per il quale posseggo un talento naturale. Una sera entrai a caso in un caffè, in una città non dei Tropici, bensì del Mezzogiorno della Francia. Era pieno di fumo di tabacco, del brusio di voci, del rumore di pedine del domino mosse sui tavoli, e dei suoni di una musica stridula. L’orchestra era alquanto più piccola di quella che suonava nell’albergo di Schomberg, aveva l’aria di un convegno amichevole di musicisti, piuttosto che di una orchestra stipendiata, e, debbo confessare, sembrava assai più rispettabile di quanto non sia l’impresa musicale di Zangiacomo.
Aveva anche meno pretese, era più familiare e alla buona, per così dire, tanto più che negli intervalli, quando tutti i suonatori scendevano dalla piattaforma, uno di loro girava fra i tavoli a raccogliere le offerte in una scatola di latta assai malconcia, che ricordava la forma di una salsiera. Era una ragazza. Oggi che ci ripenso; il suo atteggiamento di distacco dal compito che le era toccato mi sembra uguale, se non superiore, a quello di Heyst di fronte a tutte le degradazioni mentali cui l’intelligenza di un uomo è esposta nell’attraversare la vita. Silenziosa, con gli occhi bene aperti, andava da un tavolo all’altro con l’aria di una sonnambula, e senza fare altro suono, per attirare l’attenzione degli avventori, tranne quello leggero delle monete sul piattino di latta. Questo accadde molto tempo dopo che si era chiuso il capitolo marino della mia vita, ma è difficile tenere del tutto distaccate fra loro le caratteristiche di una metà intera della propria vita, e fu in un certo senso nello stato d’animo del marinaio a terra che lasciai cadere un pezzo da cinque franchi nella salsiera; in seguito a ciò, la sonnambula volse il capo per contemplarmi e disse: »Merci, monsieur», in un tono in cui non c’era gratitudine, ma solamente sorpresa. Dovevo essere davvero in uno stato d’animo ozioso per osservare, in base a una così lieve esperienza, che quella voce era graziosissima; e quando i suonatori ripresero il loro posto, mi spostai leggermente affinché quella particolare suonatrice non mi rimanesse nascosta dall’ometto con barba che dirigeva l’orchestrina, e che, per tutto quello che ne so, avrebbe potuto anche esser suo padre, ma la cui vera missione nella vita era quella di costituire il modello per lo Zangiacomo di Victory. Essendomi procurato così una visuale sgombra, naturalmente (non avendo nulla da fare) continuai a guardare la ragazza durante tutta la seconda parte del programma. La forma della sua testa bruna china sul violino era affascinante, e, quando si riposava negli intervalli di quel programma interminabile, col suo abito bianco e le mani dalla pelle scura adagiate sul grembo, era l’immagine vivente dell’innocenza che sogna. La donna matura, rabbiosa, che sedeva al piano, avrebbe potuto essere sua madre, benché fra le due non ci fosse la minima somiglianza.
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