Tutti, in quella parte del mondo, lo conoscevano, e sapevano che abitava sul suo isolotto. Un’isola non è la sommità di una montagna. Axel Heyst, arrampicato immutabilmente sopra di essa, era circondato, anziché dall’oceano tempestoso e trasparente, imponderabile, dell’atmosfera, che sfuma nell’infinito, da un mare tiepido e basso: una ramificazione morta delle grandi acque che abbracciano i continenti di questo globo. Le visite che riceveva più di frequente erano ombre, ombre di nuvole, che rompevano un poco la monotonia del sole dei Tropici, inanimato e insistente. Il suo vicino più prossimo - ora parlo di cose che presentano una qualche specie di animazione - era un vulcano indolente che per tutto il giorno fumava appena, col capo che si ergeva poco sopra l’orizzonte, e di notte gli gettava, tra le chiare stelle, un baluginio cupo e rosso, che spasmodicamente cresceva e ricadeva, come la punta di un sigaro gigantesco cui qualcuno, nel buio, desse a intermittenza delle tirate. Anche Axel Heyst era un fumatore: e quando indugiava sulla veranda col suo sigaro olandese subito prima di andarsene a letto, nella notte produceva la stessa specie di lucore, e delle stesse dimensioni, come quell’altro che stava tante miglia lontano.
In un certo senso, in mezzo alle ombre della notte, il vulcano gli teneva compagnia - ombre che spesso erano troppo dense, si sarebbe detto, per lasciar passare anche un solo fiato d’aria. Raramente c’era vento abbastanza da muovere attorno anche una piuma. Quasi in ogni sera dell’anno Heyst avrebbe potuto rimaner là seduto, con una candela non protetta, a leggere uno dei libri che gli erano stati lasciati dal padre defunto. E non costituivano una riserva da poco.
Ma lui, questo, non lo faceva mai. Molto probabilmente, per paura delle zanzare. Né mai quel silenzio lo tentava a rivolgere qualche osservazione, così per discorrere, rivolta al familiare luccichio del vulcano. Heyst non era matto. Un tipo strano, sì, questo lo si sarebbe potuto dire, e infatti lo si diceva; però mi vorrete concedere che fra le due cose c’è una differenza enorme.
Nelle notti di luna piena il silenzio intorno a Samburan - «l’Isola Rotonda» delle carte nautiche - era abbacinante; e nel pieno flusso di quella luce fredda Heyst poteva vedere le cose che gli stavano subito attorno e che avevano l’aspetto di un insediamento abbandonato, invaso dalla giungla: tetti appena accennati sopra la vegetazione bassa, ombre interrotte di incannicciate di bambù in mezzo al brillio dell’erba lunga, qualcosa come un tratto di strada mezzo ricoperto dalla vegetazione, che di sghembo, tra folti selvatici, piegava verso la spiaggia, lontana solo un centinaio di metri; e laggiù un imbarcatoio nero e una specie di montagnola, che dalla parte non illuminata aveva il colore dell’inchiostro. Ma l’oggetto più vistoso era un’insegna nera gigantesca retta da due pali, e che presentava a Heyst, quando la luce si spostava da quella parte, le lettere bianche «T. B. C. Co.», messe in fila e alte almeno due piedi.
Erano le iniziali della Tropical Belt Coal Company, di cui egli era impiegato - di cui era stato impiegato, per esser precisi.
Secondo i misteri contro natura del mondo finanziario, poiché il capitale della T. B. C. Company era svaporato in un periodo di due anni, la società era andata in liquidazione, forzosa, credo, non volontaria. Ma non c’era stato nulla di impetuoso in quel procedimento. Era stato anzi lento; e mentre, languidamente, a Londra e ad Amsterdam, procedeva la liquidazione, Axel Heyst, che nei programmi della società figurava col titolo di «direttore ai Tropici», rimaneva al suo posto a Samburan, che era la principale stazione carbonifera della società.
E non era semplicemente una stazione carbonifera. Là c’era una miniera di carbone, con un affioramento sul fianco della collina a meno di cinquecento metri dalla banchina traballante e dall’imponente insegna. Lo scopo della società era stato quello di impossessarsi di tutti gli affioramenti che si trovavano sulle isole tropicali, e di sfruttarli sul posto.
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