E Dio sa quanti ce n’erano! Era Heyst che ne aveva individuato la maggior parte in questa zona della cerchia tropicale durante i suoi vagabondaggi alquanto privi di scopo, e, poiché era un epistolografo abbastanza corrente, sul loro conto aveva scritto pagine e pagine ai suoi amici in Europa. Almeno, così si diceva.
Che egli avesse davanti agli occhi della mente delle visioni di ricchezza - per sé, quanto meno -, noi ne dubitavamo. Ciò che più sembrava interessarlo era la «marcia in avanti», come egli si esprimeva, nell’organizzazione generale dell’universo (a quanto sembra). Più di cento persone in quelle isole lo avevano sentito parlare di «un grande passo in avanti per queste regioni». Il convinto moto della mano che accompagnava la frase faceva pensare che le distanze tropicali dovesseto venire spinte in avanti. La cosa, aggiunta alla compiuta cortesia delle sue maniere, era persuasiva, o se non altro, riduceva lo spettatore al silenzio, almeno per un certo tempo. Quando lui si metteva a parlare in questa vena, nessuno aveva voglia di discutere con lui. Questa sua passione non poteva far male a nessuno. Non poteva esserci nessun pericolo che qualcuno prendesse sul serio il suo sogno intorno al carbone tropicale, e perciò, che ragione c’era di offendere i suoi sentimenti?
Così ragionavano coloro che si trovavano in rispettabili uffici di affari, nei quali egli era ammesso come persona che era venuta in Oriente con lettere di presentazione - e con delle modeste lettere di credito, altresì - alcuni anni prima che questi affioramenti di carbone avessero cominciato ad affiorare nella sua conversazione giocosamente cortese. Fino dal principio era stato difficile giudicare l’uomo. Non era un viaggiatore. Un viaggiatore arriva e parte, se ne va in qualche altro luogo. Heyst non partiva. Una volta feci la conoscenza di un tale - il direttore della filiale di Malacca della Oriental Banking Corporation - parlando col quale Heyst aveva esclamato, senza riferirsi a nulla in particolare (questo era accaduto nella sala da biliardo del club): «Sono incantato da queste isole!»
Aveva sparato questa frase all’improvviso, à propos des bottes, come dicono i francesi, mentre dava il gesso alla stecca. E forse si trattava di una qualche specie di incantamento. Esistono incantamenti più numerosi di quelli che i nostri maghi senza fantasia abbiano mai sognati.
Approssimativamente, un circolo con un raggio di ottocento miglia tracciato intorno a un certo punto del Borneo Settentrionale era, nel caso di Heyst, il circolo magico. Esso toccava appena Manila, e là egli era stato visto.
Toccava appena Saigon, e anche là, una volta, era stato visto. Forse questi erano stati i suoi tentativi di rompere l’incantesimo. In tal caso, erano stati degli insuccessi. L’incantesimo doveva essere invincibile. Il direttore - l’uomo che aveva udito l’esclamazione - era stato tanto colpito dal tono, dal fervore, dal rapimento, come volete, o forse dall’incongruenza di quella frase, che aveva riferito la cosa a più di una persona.
«Strano tipo, quello svedese», era stato il suo solo commento; ma questo fu l’origine del nome «Heyst l’Incantato», che certi tipi affibbiarono al nostro uomo.
Gli davano anche altri nomi. Nei primi anni, prima di essere diventato così elegantemente calvo al sommo del capo, era andato a consegnare una lettera di presentazione a Mr. Tesman della Tesman Brothers, una società di Surabaya - una casa di prim’ordine. Bene, Mr. Tesman era un signore gentile, affettuoso.
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