Su questo suo visitatore, non era riuscito a raccapezzarsi. Dopo avergli detto che la società desiderava rendergli quanto più gradevole possibile la sua permanenza nelle isole, e che era pronta ad assisterlo nei suoi progetti, e così via, e dopo aver ricevuto i ringraziamenti di Heyst - conoscete questo genere di conversazione - in un tono di voce basso, paterno, si era arrischiato a chiedergli:
«E voi vi interessate di…?»
«Fatti», interruppe Heyst con la sua voce da gran signore. «Non c’è nulla che valga la pena di esser conosciuto, tranne i fatti. Crudi fatti! Solo i fatti, Mr. Tesman».
Non so se il vecchio Tesman si fosse trovato d’accordo con lui o meno, ma deve averne parlato con qualcuno, perché, per un certo tempo, il nostro uomo ebbe il nomignolo di «Crudi Fatti». Egli aveva la singolare fortuna che i suoi detti gli rimanevano attaccati ed entravano a far parte del suo nome. Dopo di allora, andò attorno per il Mare di Giava in alcuni degli schooners di commercio dei Tesman, poi scomparve, a bordo di una nave araba, in direzione della Nuova Guinea. Rimase tanto a lungo in quella parte lontana del suo cerchio incantato che fu dimenticato quasi del tutto, finché non riaffiorò in un prau indigeno pieno di vagabondi di Goram, tutto bruciato dal sole, molto magro, coi capelli molto più radi, e una cartella di disegni sotto il braccio. Era sempre disposto a far vedere i disegni, ma su tutto il resto era riservatissimo. «Si era divertito», diceva. Uno che va nella Nuova Guinea per divertirsi… Bah!
Più tardi, anni dopo, quando dal suo volto erano scomparse le ultime tracce della giovinezza, e così tutti i capelli dalla sommità del suo capo, e i suoi mustacchi orizzontali, d’un color rosso oro, erano cresciuti a raggiungere proporzioni veramente nobili, un certo bianco poco rispettabile gli aveva affibbiato un epiteto. Mettendo giù, con mano malferma, un lungo bicchiere che aveva vuotato del suo contenuto - e lo aveva pagato Heyst - disse, con quella decisa sagacia che non viene mai raggiunta da un semplice bevitore d’acqua:
«Heyst è un pef-fetto gentiluomo. Pef-fetto! Ma è un ut-uto-utopista».
Solo un minuto prima Heyst era uscito dal pubblico locale dove questa sentenza veniva pronunciata. Utopista, dunque! A onor del vero, la sola cosa che gli avevo sentito dire, e che avrebbe potuto avere un qualche rapporto con l’affare dell’utopista, era stato il suo invito allo stesso vecchio McNab. Volgendosi a lui con quella perfetta cortesia di atteggiamento, di gesti, di voce, che era la sua evidente caratteristica, egli aveva detto con un tono delicatamente giocoso:
«Venite a placare la vostra sete con noi, Mr. McNab!»
Forse si trattava di questo. Un uomo che arrivasse a proporre, anche per scherzo, di placare la sete del vecchio McNab, doveva essere un utopista, un inseguitore di chimere; poiché, di ironie crude e dirette, Heyst non era prodigo. E
forse questa era la ragione per cui generalmente gli volevano bene. In quell’epoca della sua vita, nella pienezza del suo sviluppo fisico, con la sua presenza grande e marziale con la testa calva e i lunghi baffi, somigliava ai ritratti di Carlo XII, di avventurosa memoria. Tuttavia, non c’era nessuna ragione di pensare che Heyst fosse in alcuna maniera un uomo battagliero.
II
Fu circa in quel tempo che Heyst si mise con Morrison, e sui termini del loro rapporto la gente aveva dei dubbi.
Alcuni dicevano che egli era socio, altri dicevano che era una specie di ospite pagante, ma la verità vera della cosa era più complessa. Un giorno Heyst comparve a Timor. Perché a Timor, fra tutti i luoghi del mondo, nessuno lo sa. Bene, gironzolava per Delli, quella località altamente pestilenziale, forse in cerca di qualche fatto non ancora scoperto, quando, per la strada, si imbatté in Morrison che era anche lui, a suo modo, un uomo «incantato». Quando parlavate a Morrison di rimpatriare - egli veniva dal Dorsetshire - gli venivano i brividi. Diceva che laggiù era buio e umido; che era come vivere con la testa e le spalle in un saccone bagnato. Ma questo era solo il suo modo esagerato di parlare.
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