Allora la giovane donna ritor-nava a letto, rassicurata da quella luna e da quelle stelle, quelle migliaia di presenze intorno a suo marito. Verso l’una, essa lo sentiva vicino. «Non deve essere più molto lontano; ora deve già scorgere Buenos Aires…» Allora s’alzava ancora, e gli preparava da mangiare e un caffè bollente: «Fa così freddo lassù…». Essa lo riceveva sempre come se scendesse da una cima coperta di neve: «Non hai avuto freddo?».
«Ma no.» «Riscaldati lo stesso…» Verso l’una e un quarto era pronto.
Allora telefonava.
Quella notte, come le altre, s’informò:
«Fabien ha atterrato?»
Il segretario che l’ascoltava si turbò un poco:
«Chi parla?» «Simona Fabien.» «Ah! Un minuto…»
Il segretario, non osando dir nulla, passò il ricevitore al capo ufficio.
«Chi parla?»
«Simona Fabien.»
«Ah!… Cosa desidera, signora?»
«Mio marito ha atterrato?»
Ci fu un silenzio che dovette sembrare inspiegabile, poi fu risposto semplicemente:
«No.»
«C’è ritardo?» «Sì.»
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Ci fu un altro silenzio. «Sì… ritardo.» «Ah!…»
Era un “ah!” di carne ferita. Un ritardo è nulla… nulla… ma quando si prolunga…
«Ah!… E a che ora sarà qui?»
«A che ora? Non… non lo sappiamo.»
Ora, essa urtava contro un muro. Non otteneva che l’eco delle sue do-mande.
«La prego, mi dica: dov’è ora?»
«Dov’è? Aspetti…»
Questa inerzia le faceva male. Doveva succedere qualche cosa dietro quel muro. Tuttavia si decisero:
«È partito da Commodoro alle diciannove e mezzo.» «E poi?»
«Poi?… Molto ritardo… Molto ritardo per causa del cattivo tempo…»
«Ah! Il cattivo tempo…»
Che ingiustizia, che perfidia in quella luna oziosa, che splendeva su Buenos Aires! Improvvisamente la donna ricordò che ci volevano solo due ore per andare da Commodoro a Trelew.
«Ed egli vola da sei ore verso Trelew! Ma invia messaggi? Cosa dice?»
«Cosa dice?… Naturalmente, con un tempo simile, lei capisce, vero? i suoi messaggi non ci giungono.»
«Un tempo simile?»
«Allora, siamo d’accordo, signora, le telefoneremo appena sapremo qualche cosa.»
«Ah! loro non sanno niente…»
«Arrivederci, signora…»
«No! No! Voglio parlare col direttore!»
«Il signor direttore è molto occupato, signora, è in consiglio…»
«Non me ne importa niente! Non me ne importa niente! Voglio parlar-gli!»
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Il capo ufficio s’asciugò la fronte:
«Un minuto…»
Spinse la porta di Rivière:
«È la signora Fabien che vuole parlarle.»
“Ecco” pensò Rivière “ecco quello che temevo.” Gli elementi patetici del dramma cominciavano a mostrarsi. Per prima cosa pensò a respingerli: le madri e le mogli non entrano nelle sale operatorie. Anche sulle navi in pericolo si fa tacer l’emozione.
Essa non aiuta gli uomini a salvarsi. Nondimeno rispose:
«Mi dia la comunicazione.»
Ed egli ascoltò quella piccola voce lontana, tremante, e, subito, si rese conto che non avrebbe potuto rispondere. Sarebbe stato infinitamente sterile per entrambi, affrontarsi.
«Signora, la prego, si calmi! Nel nostro mestiere è così frequente aspet-tar notizie.» Egli era giunto a quella frontiera ove non il problema d’una piccola angoscia particolare si presenta all’uomo, ma quello stesso dell’azione. In faccia a Rivière s’alzava non la moglie di Fabien, ma un altro senso della vita. Rivière non poteva che ascoltare e compiangere quella piccola voce, quel canto così triste, ma nemico. Perché né l’azione, né la felicità individuale ammettono d’esser divise: esse sono in conflitto. Anche quella donna parlava in nome d’un mondo assoluto e dei suoi doveri e dei suoi di-ritti. Il mondo d’una luce di lampada sulla tavola serale, d’una carne che reclama la sua carne, d’una patria di speranze, di tenerezze, di ricordi. Essa esigeva la sua ricchezza e aveva ragione. E anch’egli, Rivière, aveva ragione, ma non poteva oppor nulla alla verità di quella donna. Egli scopriva, alla luce d’un’umile lampada domestica, che la sua verità era inesprimibile e inumana.
«Signora…»
Essa non ascoltava più.
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