Ma, soprattutto, aveva criticato il modo con cui era stata montata una pompa d’olio del tipo B. 6, confondendola con una pompa d’olio del tipo B. 4, e i meccanici sor-nioni avevan lasciato che per venti minuti egli parlasse con disprezzo di
“una ignoranza imperdonabile”, la sua ignoranza.
Egli aveva anche paura della sua camera d’albergo. Da Tolosa a Buenos Aires, invariabilmente, dopo il lavoro, egli rientrava nella sua camera d’albergo; vi si chiudeva con la coscienza dei segreti ond’era pesante, levava dalla valigia una risma di carta, scriveva lentamente Rapporto, arrischiava qualche linea e lacerava tutto. Gli sarebbe piaciuto salvar la Compagnia da un grande pericolo. Essa non correva nessun pericolo. Sino ad ora, egli non aveva salvato che un perno d’elica lievemente intaccato dalla ruggine. Aveva strisciato il dito su quella ruggine, con aria funebre, lentamente, dinanzi ad un capo d’aeroporto, che, d’altra parte, gli aveva risposto: «Si ri-volga allo scalo precedente: quest’aeroplano è arrivato ora».
Robineau dubitava della sua parte. Per ravvicinarsi a Pellerin, arrischiò:
«Vuole pranzare con me? Ho bisogno di chiacchierare un poco… Qualche volta il mio mestiere è duro…»
Poi, per non abbassarsi troppo rapidamente, si corresse:
«Ho tante responsabilità!»
I subalterni di Robineau non amavano introdurlo nella loro vita privata.
Ciascuno pensava: “Se non ha trovato ancora nulla per il suo rapporto, sic-18
come è affamato, mi mangerà”.
Ma Robineau, quella sera non pensava che alle sue miserie: aveva il corpo afflitto da un eczema assai seccante, e gli sarebbe piaciuto raccontare questo ch’era il suo solo vero segreto, farsi compiangere, e poiché non trovava nessuna consolazione nell’orgoglio, cercarne nell’umiltà. Aveva anche, in Francia, un’amante alla quale, la notte, quando rincasava, racconta-va le sue ispezioni, per stupirla un poco e farsi amare, ma che, invece, non lo poteva soffrire; ed egli sentiva il bisogno di parlare di lei:
«Allora, lei pranzerà con me?»
Pellerin, bonario, accettò.
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VI
Quando Rivière entrò negli uffici di Buenos Aires, i segretari sonnec-chiavano. Rivière non s’era tolto né il cappello né il soprabito; egli faceva sempre pensare ad un eterno viaggiatore. La sua piccola persona spostava una quantità d’aria così minima, i suoi capelli grigi e i suoi vestiti anonimi s’adattavano così bene a qualunque ambiente, che egli passava inavvertito ovunque. E, nondimeno, un nuovo zelo animò i suoi dipendenti. I segretari s’agitarono, il capo ufficio si mise a consultare in fretta le ultime carte, le macchine da scrivere crepitarono.
Il telefonista inseriva le spine nel quadro delle comunicazioni, e segnava in un grosso libro i telegrammi.
Rivière sedette e lesse.
Egli rileggeva, dopo la prova del Cile, la storia d’un giorno felice nel quale gli avvenimenti si dispongono in ordine per virtù propria, nel quale i messaggi, lanciati l’uno dopo l’altro dagli aeroporti, somigliano a sobri bol-lettini di vittoria. Anche il corriere di Patagonia s’avvicinava rapidamente: era in anticipo sull’orario, perché i venti spingevano dal Sud al Nord una grande ondata favorevole.
«Mi passi i messaggi meteorologici.»
Ogni aeroporto vantava il suo tempo limpido, il suo cielo trasparente, la sua brezza soave. Una sera dorata aveva abbigliato l’America. In quel momento, il corriere di Patagonia lottava in qualche luogo nell’avventura della notte, ma con le migliori probabilità di vittoria.
Rivière respinse il libro.
«Va bene.»
Poi uscì per dare un’occhiata ai servizi, scolta notturna che vegliava sulla metà del mondo.
Dinanzi ad una finestra aperta, si fermò e comprese la notte. Essa, la notte, conteneva Buenos Aires, ma anche, come un’immensa nave, l’America.
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